cosa accade nella mente della vittim ae in quella dell’aggressore

Il web enfatizza un’aggressività i cui effetti sono gravi come quella reale

Insulti, minacce, aggressioni verbali: le pagine dei social, i commenti online sono vetrine di un’aggressività che si muove senza filtri e senza controlli. Ma da dove viene questa aggressività? È reale o virtuale? E quali sono gli effetti sulle vittime?

di Chiara Di Cristofaro

4' di lettura

Insulti, minacce, aggressioni verbali: le pagine dei social, i commenti online sono vetrine di un’aggressività che si muove senza filtri e senza controlli. Un’aggressività che sorprende, che indigna, che si fa fatica a comprendere, ma che va considerata nelle sue origini e nei suoi effetti, perché molto reale e concreta, da diversi punti di vista. Odio online, odio social, haters: i termini ormai di uso comune indicano un fenomeno diventato consuetudine. Ma da dove viene questa aggressività? È reale o virtuale? E quali sono gli effetti sulle vittime?

Le minacce online e la fragilità della vittima

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«Il reale e il virtuale non si distinguono – spiega la psicologa e psicoterapeuta Barbara Forresi - l’aggressione online è una vera e propria aggressione, a tutti gli effetti, e gli esiti psicologici delle parole sulla vittima presa di mira non sono da sottovalutare. Non mi chiederei se l'aggressività è virtuale o reale ma come si manifesta diversamente a seconda di luoghi (e persone)… da questo punto di vista Internet è solo il contesto». Auspici di morte, minacce di ogni tipo e, quando si tratta di donne, di stupro, con dettagli raccapriccianti sulle modalità, l'augurio di subire vessazioni e torture a sfondo sessuale. La sensazione di fragilità intensa che la vittima si trova a vivere quando viene attaccata online è concreta, reale, molto forte. Chi è colpito si sente in pericolo. Si sente odiato, sperimenta un senso di ingiustizia e di debolezza per aver, magari, espresso una sua opinione e una sua idea. «Le parole fanno più male delle botte», scrisse nelle poche righe lasciate alla famiglia Carolina Picchio, la 14enne che si uccise dopo essere stata vittima di pesanti attacchi online da parte di un gruppo di cyberbulli. Anche qui, la denigrazione sessuale era prevalente negli insulti che la colpirono. Certo, in questo caso le persone erano conosciute, quindi la minaccia “vicina”, ma la tragedia di Carolina e quelle analoghe dimostrano che ciò che accade online, dal punto di vista psicologico, è strettamente connesso a ciò che viviamo nel quotidiano, ne è ormai parte integrata, la distinzione tra reale e virtuale non regge. Una parte della nostra identità, del nostro io, viaggia in rete.

La regolazione emotiva deriva dallo sguardo dell’altro
Nel caso degli haters “sconosciuti”, che colpiscono prevalentemente personaggi noti o pubblici, poi, va rilevato come sempre meno si ricorra all'anonimato, quasi che l'espressione di odio senza limiti sia sempre più considerata socialmente accettabile (link all'articolo di Simona Rossitto). Ma l'anonimato, inteso in senso più ampio, cioè assenza di presenza de visu, resta al centro del fenomeno. «Il filosofo tedesco Byung-Chul Han ha detto che la rete è il luogo dell'anonimato, del non nome e dunque del non rispetto – dice Barbara Forresi – perché il rispetto è legato a un nome, a un volto, a una persona. La regolazione emotiva nelle relazioni arriva dallo sguardo dell'altro, cosa che non avviene negli scambi online. Lo sguardo, le espressioni del volto, il tono di voce, la postura hanno a che vedere con il rispetto: contrariamente alle interazioni vis a vis, quelle online non permettono di vedere le emozioni scritte sul volto di chi riceve le nostre parole». Non c'è scambio, quindi, ma solo un’espressione unilaterale di rabbia, aggressività e odio, nessuno degli hater si rivolge direttamente alla vittima, spesso nei commenti si nota anche che ci si riferisce a lei in terza persona, gli haters si danno man forte a vicenda. «Se abbandonarsi al discorso d'odio è facile, Internet lo semplifica ulteriormente: aumentano gli spettatori, si moltiplicano i pretesi, si riducono le occasioni di punizione, la riprovazione sociale è più blanda, i tempi di risposta rapidissimi e non c'è la possibilità di vedere negli occhi e nel volto dell'altro la reazione alla nostra violenza».

La forza – e il pericolo – del gruppo: la ricompensa dell’odio
Dal punto di vista sociale, la piazza virtuale quindi ripropone e fa da megafono a ciò che già esiste, con alcune distorsioni legate al mezzo. Nel gruppo intervengono meccanismi di categorizzazione che, spiega ancora Forresi, «si nutrono di stereotipi e pregiudizi come il genere o la cittadinanza, dinamiche di esclusione, polarizzazione delle idee espresse (che in gruppo diventano estreme), deumanizzazione delle vittime e deresponsabilizzazione sociale». Non da ultimo, quando l’odio di un hater diventa ondata di odio, entrano in gioco anche meccanismi di ricompensa, che derivano dall'approvazione degli altri, dei simili e allora odiamo ma ci sentiamo bene, perché siamo sostenuti, appoggiati. Non siamo soli. Questo accresce le probabilità che il comportamento si reiteri nel futuro. Non solo: «I gruppi che si accaniscono sui social contro l'hater di turno replicano quanto combattono e contraddicono quanto affermano, ossia il diritto al rispetto reciproco, al dialogo, all'umanità, alla comprensione. La violenza è forse meno violenta se è in difesa di qualcuno?», si chiede la dottoressa Forresi. La risposta all'odio, quindi, deve essere adeguata, percorrere altri canali, usare altri strumenti e non stimolare gli stessi meccanismi psicologici e sociali che cerca di combattere.

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