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Immanenza e malinconia nella raccolta di Alberto Bertoni

In libreria “L'isola dei topi” per i tipi di Einaudi

di Matteo Bianchi

3' di lettura

Già vincitrice della 13esima edizione del premio PontedilegnoPoesia, l'ultima raccolta in versi di Alberto Bertoni, L'isola dei topi (Einaudi 2021, pp. 144), a tratti parrebbe quasi una passeggiata negli anfratti di Modena, tra muri di mattoni e varchi vaneggiati, durante la quale l'autore vive la sua flânerie quotidiana, perdendosi in un dedalo purgatoriale per poi ritrovarsi disincantato, ma consapevole della bellezza del Duomo dietro casa - per replicare alla vexata quaestio di Krüger - cosparso finalmente “d'una luce senza braci”.

La vita degli interni

Immanenza e malinconia sono le coordinate invisibili del poeta che ricalca meriggi e ombre, e compone “fra spirito e bisogno”, convinto che la parola poetica sia ancora in grado di superare le sue contraddizioni transitorie, poiché “molto più grande / del suo corpo”, sebbene rassegnato al fatto che nessun supporto possa mai restituire fedelmente l'organicità della memoria biologica.

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Se L'isola dei topi non simboleggia soltanto le fughe dei rimorsi dalle fogne modenesi quanto la noncuranza chic dei parigini, i ratti di Bertoni trasportano gli incubi, sono concrezioni dell'inconscio. La poesia, dunque, si fa strumento di un'interiorità sotterranea e indicibile, per continuare a dialogare con chi non c'è più.

In Intervista a un suicida di Vittorio Sereni, suo nume tutelare, l'ansia del dialogo è in grado di annichilire la distanza tra vivi e morti. Nella sezione Brindisi e dediche la poesia si fa colloquio, e l'unica divisione tra chi è rimasto e chi non c'è più è stabilita da una preposizione, seguendo un consiglio delicato di Sanguineti: gli omaggi ai defunti sono introdotti da “per”, invece gli auspici agli amici da “a”, come a Giancarlo Sissa e a Francesco Guccini.

Un ade privato

Adorno profetizzò che dopo Auschwitz e lo sterminio nei lager, la tradizione occidentale sarebbe mutata irrimediabilmente e si sarebbero potute scrivere solo poesie “barbariche”. La topizzazione del mondo raffigurata duramente da Spiegelman in Maus si rivela autentica, quasi ci avesse pervaso; perciò Bertoni intitola la sesta sezione del volume Was war, “ciò che è accaduto”, perché Celan chiamava la Shoah in questo modo, portandosi dentro l'Olocausto senza mai nominarlo, e facendo a pezzi la lingua di coloro che lo avevano privato dei suoi cari. L'autore prova a trasferire questo immane “accaduto” alla realtà contemporanea, massificata e negativa in molti suoi svolgimenti: i topi sono il correlativo oggettivo di una constatazione di orrore che abita l'autore e che emerge dalle crepe più profonde e taciute, dall'ipocrisia di una superficie sotto gli occhi di tutti.

Da Modena a Parigi

Sin dai versi in copertina, le cose sono le misure dell'inanimato che si confrontano con l'umano e, se da un lato godono di una sorta d'infrangibilità, poiché non subiscono la conta dei giorni, dall'altro non sopravvivono all'uso che ne viene fatto e al gusto del momento che le condanna a essere dimenticate nelle soffitte, o buttate nei cassonetti “.Da ammiratore del Surrealismo, Bertoni le accumula tra le pagine, spogliandole di ogni sorte immutabile e imperitura, “come multipli di zero, / come essenze del nulla”, rappresentando lo squallore che oggi s'incontra al Marché aux Puces de Saint-Ouen, valicato il brulichio del Boulevard Périphérique di Parigi, tra tappeti, stoviglie e vettovaglie, i figli della peggiore riproducibilità che si mescolano sui banchi e testimoniano una morte in vita. Deperimento che non tocca, tuttavia, il sentimento di mortalità del poeta, che ne fuoriesce inebriato: si rafforza una vitalità carnale in scia al diario di Sereni e ai quaderni di Montale, un autobiografismo che non abolisce l'io e non rinuncia alla sua soggettività, imponendosi ai limiti di una singolarità indispensabile quando l'essenza di ogni situazione finisce per coincidere con la propria verità. Verità che gli individui non temono in quanto tale, ma per solitudine di svelarla nello specchio e fuori tempo massimo: “e alla fine ho ridato faccia d'uomo / al topo color cenere che sono”.


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