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Imparare scrittura e mestiere da Lamberto Sechi, maestro di giornalismo

Di esperienze con «Panorama» ne ho fatte due: la prima nella seconda metà degli anni Settanta, la seconda diversi anni dopo, dal 1993 al 1994. Ebbene, definire esperienza quella della prima volta è poco, perché si trattò di un battesimo e di un nuovo corso che incisero profondamente sulla mia vita e sulle mie capacità personali.

di Giuliano Amato

 Mensile, divenne settimanale nel 1965

4' di lettura

Di esperienze con «Panorama» ne ho fatte due: la prima nella seconda metà degli anni Settanta, la seconda diversi anni dopo, dal 1993 al 1994. Ebbene, definire esperienza quella della prima volta è poco, perché si trattò di un battesimo e di un nuovo corso che incisero profondamente sulla mia vita e sulle mie capacità personali. A quel tempo io ero un giovane professore, intellettuale di area socialista. Avevo scritto libri e articoli giuridici con pochissimi affacci sul giornalismo politico. Ma Lamberto Sechi, allora direttore di «Panorama», mi cercò e mi propose di ereditare quella che era stata per anni la pagina di Giorgio Galli.

Per chi quella pagina la ricorda, è facile capire la responsabilità che entrambi ci assumevamo. Fare commenti politico-istituzionali era un mestiere che mi si addiceva, ma non ne avevo mai fatti di quella misura, con il linguaggio adatto a un settimanale, con una periodicità essa stessa settimanale. Imparai a farli, l’ho sempre considerato uno dei traguardi più difficili e ambiti ai quali sono riuscito ad arrivare, ma se ciò è accaduto so di doverlo soprattutto a Sechi, che davvero in quella circostanza mi fu maestro, efficacissimo e bravo maestro. Aveva colto in me la stoffa del commentatore, ma sapeva che doveva insegnarmi il mestiere. E lo fece, intrattenendosi con me, più volte, quel tanto che serviva per far maturare l’idea giusta della settimana e per farmi così capire come sceglierla; correggendo quello che scrivevo, per rendere più nette e semplici le frasi senza tuttavia perderne la sostanza; ribadendomi, ogni volta che gli sembrava necessario, la regola base per ogni editorialista: mettici un’idea, un’idea sola – mi diceva –, se ce ne metti di più, il lettore si perde. E tu perdi lui.

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Ho un gran ricordo di Lamberto Sechi, il mio maestro di giornalismo. E non meno grande è il ricordo di Claudio Rinaldi, che conobbi proprio a «Panorama» come capo della redazione romana. Con Claudio finì che ci vedevamo molto spesso nella sede di via Sicilia. Nel mondo non digitalizzato di allora, infatti, la consegna del “pezzo” era da parte mia assai spesso manuale. Se ne poteva anche fare una lettura a distanza, per telefono, se e in quanto nella redazione ci fosse a registrarla un dimafono con accanto un dimafonista. Il dimafono era uno speciale registratore, capace di trascrivere ciò che sentiva su linotype. Ma c’erano parole che prendeva solo se le sillabavi, la punteggiatura andava detta, insomma senza il dimafonista non funzionava bene e il dimafonista non sempre c’era. Di qui la consegna a mano e la chiacchierata con chi c’era. Ricordo che, quando ero ad Ansedonia, più volte dedicavo un intero pomeriggio a fare su e giù in treno per portare il pezzo. Facevo contento mio figlio, allora sui dieci anni, a cui piaceva molto viaggiare in treno. Con al ritorno, in più, un panino al salame che gli compravo alla stazione Ostiense, da cui rientravamo.

Ho guadagnato molto da quell’esperienza. Non solo perché ho imparato a scrivere come si scrive sui giornali – e di questo ho già detto – ma perché ho imparato a scrivere come ovunque si dovrebbe e come di sicuro si doveva sul «Panorama» di Lamberto Sechi: separando i fatti dalle opinioni. Ho un grande rimpianto di quella regola, oggi largamente caduta.

Intanto perché il rispetto del lettore ti impone di osservarla, non raccontandogli quello che lui vuole (o che tu vuoi che lui voglia), ma raccontandogli e spiegandogli, per cominciare, le cose come stanno e risultando perciò affidabile proprio e in primo luogo per questo racconto e questa spiegazione.

E poi, perché, stando così le cose, ti impone di documentarti bene sul fatto, di essere preciso, mai approssimativo. Mentre una volta che fatti e opinioni hanno cominciato (o ricominciato) a mischiarsi, capita sempre più spesso che il fatto a stento ci sia, o che sia deformato, dovendo servire soltanto a dar conferma dell’opinione.

Al di là di ciò che ho imparato, c’è anche ciò a cui mi è servito scrivere quella settimanale opinione. Mi è servito a seguire quello che veniva accadendo nella vita sociale e politica italiana con l’attenzione necessaria a coglierne gli aspetti meritevoli di essere commentati e comunque segnalati alla discussione pubblica. È il livello di attenzione che, in fondo, ogni cittadino attivo dovrebbe avere. Ma sono certo che, senza l’impegno di «Panorama», quell’impegno non lo avrei avuto. Mi trovavo del resto a parlare con colleghi professori, non pensosi soltanto delle loro dottrine, ma convinti di essere partecipi della nostra vita collettiva, e mi accorgevo che di tante cose importanti che accadevano non sapevano nulla. Semplicemente, non avevano trovato il tempo di leggere i giornali. A me non poteva capitare. Ed ero già solo per questo un buon cittadino.

Lasciai quella prima volta «Panorama» quando già ne era diventato direttore Carlo Rognoni, col quale stabilii un’amicizia che, come quella con Rinaldi, rimase negli anni. E quando ripresi la collaborazione, nel 1993, direttore era quel versatilissimo personaggio di Andrea Monti. Andavamo d’accordo e anche per questo mi dispiacque lasciare dopo solo due anni, per una ragione che mi parve allora impellente, la mia nomina alla presidenza dell’Autorità antitrust.

Lo scrissi ai lettori e dissi loro che mi pareva incompatibile continuare a fare il commentatore, avendo la nuova responsabilità di un’Autorità investita di funzioni quasi giudiziarie, il che consigliava, a dir poco, riservatezza sulle vicende politiche del paese.

Mi congedai e a questo punto della mia vita – e della mia esperienza istituzionale – mi chiedo se feci bene. Non tanto perché altri, dopo di me, ha fatto esattamente ciò che io ritenni di non poter fare. Ma perché, col consenso del direttore, avrei potuto forse mantenere la mia pagina come tribuna, al solo scopo di far conoscere l’Autorità in cui lavoravo, creare sensibilità sui temi e problemi che in essa mi trovavo ad affrontare, spiegare, quando fossero importanti per l’opinione pubblica, le decisioni che prendevamo.

Quando ero stato ministro del Tesoro lo avevo fatto ed era servito a irrobustire la consapevolezza, ancora scarsa fra gli italiani, del peso del debito pubblico.

Oggi, più di allora, sono convinto che è essenziale allargare i canali comunicativi fra le istituzioni e tutti noi cittadini: è più vivo il dibattito pubblico, si sono moltiplicati i mezzi attraverso i quali si svolge e si sono moltiplicate le persone che su di essi fanno valere la propria opinione.

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