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Imprese italiane, certificazioni di parità in crescita

Sgravi contributivi annui dell’1%, fino a un massimo di 50mila euro per le aziende certificate

di Anna Zavaritt

Formazione. Sempre più giovani donne anche nei settori tecnici

3' di lettura

Sono 178 ad oggi le aziende (considerando un’unica certificazione quelle multiple di gruppo, ndr) che su base volontaria hanno intrapreso il percorso della certificazione della parità di genere, da quando è diventata operativa nel luglio del 2022. I 21 organismi di certificazione oggi accreditati hanno liste d’attesa anche di due mesi per misurare il grado di maturità organizzativa di un’impresa in 6 aree (cultura e strategia; governance; processi Hr; opportunità di crescita e di inclusione delle donne in azienda; equità remunerativa per genere e tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro), attraverso indicatori qualitativi e quantitativi specifici.

Perché essere certificati?

Tra gli scettici, c’è chi parla dell’ennesimo “bollino”, senza benefici concreti. Lo stesso ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha dichiarato qualche settimana fa che «l’importante è premiare chi lo fa, non costringere le imprese a più burocrazia e a più costi».

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Ma è davvero così? Vale la pena sfatare qualche mito. Prima di tutto la certificazione introdotta con il nuovo Codice sulle pari opportunità (art. 46-bis) è parte integrante del Pnrr missione 5, un progetto organico e di lungo termine a sostegno dell’occupazione femminile che potrebbe contribuire per il 25% all’incremento strutturale del Pil legato al Pnrr, secondo uno studio di Ambrosetti. La certificazione non è quindi un “bollino” una tantum ma è pensata in un’ottica sistemica, di miglioramento continuo e con revisione triennale di validità. E per le micro e piccole aziende (fino a 49 dipendenti) - che sono il tessuto economico italiano - sono previste semplificazioni, con il preciso obiettivo di diffondere il più possibile una cultura del lavoro più inclusiva, compresi finanziamenti ad hoc.

Verificare la disparità salariale, mappare i percorsi di crescita – e le interruzioni, come quelle (troppo frequenti) legate alla maternità - al proprio interno o ancora ottenere il supporto e la firma dell’amministratore delegato su un piano per la parità di genere. I benefici della certificazione sono prima di tutto questi, organizzativi. Perché servono a “fare ordine” e a correggere in maniera concreta e misurabile possibili criticità che le donne incontrano sul lavoro. A beneficio dell'intera azienda.

Quali i vantaggi?

Per le imprese che si mettono alla prova, in un’ottica premiale, ci sono anche dei benefici economici: sgravi contributivi annui dell’1% – e fino ad un massimo di 50mila euro per azienda – e specificatamente per le pmi un incentivo fino a 12.500 euro per coprire i costi della certificazione, oltre a 2.500 euro per il supporto tecnico e consulenziale propedeutico all’audit. Ad oggi è anche previsto un sistema premiale nelle gare di appalto, con sconto sulle garanzie da presentare per chi ha questa certificazione. Ma le cose potrebbero presto cambiare

Le ultime bozze del decreto attuativo del Codice appalti non contengono infatti alcun riferimento alla certificazione per la parità di genere. E la premialità per le aziende certificate diventa facoltativa, facendo un generico riferimento «all’impegno a garantire le parti opportunità sia di genere che generazionali».

«Slegarla da questa norma primaria – spiega Elena Bonetti, deputata di Italia Viva ed ex ministra per le Pari opportunità e la famiglia – ed equipararla, in un allegato, ad altre certificazioni significa fare un passo indietro e tornare a parlare di donne come soggetti svantaggiati, al posto che come risorsa sociale ed economica per il Paese».

Il nuove codice, assicurano, invece, fonti governative, tutela la parità di genere all’articolo 102, dove viene espressamente previsto che, nei bandi di gara, si potrà chiedere di assumere, fra gli altri, l’impegno a garantire le parti opportunità sia di genere che generazionali. Ma con quali criteri? Di certificazioni ce ne sono molte e diverse tra loro, oltre alla Uni/PdR 125: dalla Iso 30415 sulla Diversity and Inclusion al Family Audit, solo per citarne due. Mentre la forza della Prassi di riferimento (Pdr) 125 era proprio quella di essere un riferimento unico, concreto e misurabile basato sulla volontarietà da un lato e sulla premialità pubblica dall’altro. Una misura innovativa che era stata elogiata anche in sede di G7.

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