Scienza e Filosofia

In coppia l’intelligenza raddoppia

di Roberto Casati e Achille Varzi

5' di lettura

Che cosa significa fare coppia fissa nelle attività intellettuali e scientifiche? Non c’è una risposta unica, come non c’è un solo modo di descrivere le multiformi maniere in cui si formano e si disfano amicizie, matrimoni, complicità. Ma a differenza da questi legami, che fanno parte della vita di tutti i giorni, sicuramente il lavoro intellettuale incuriosisce perché viene associato a una solitudine che se da un lato sarà anche fruttuosa, dall’altro appare come ineluttabile: alla fine sei da solo con i tuoi pensieri, sei da solo davanti al foglio di carta bianco, porti l’unica responsabilità dei tuoi errori, e raccogli da solo i frutti del tuo lavoro: magari fama e gloria, più modestamente la soddisfazione di aver contribuito con un mattone all’edificio della conoscenza.

Questo lo stereotipo; la realtà sul campo ci racconta una storia niente affatto monolitica. Ovvio, in molte professioni creative, come per esempio la musica, la collaborazione è una necessità dettata dal repertorio; le formazioni da camera e di gruppo richiedono, per l’appunto, la collaborazione tra diversi musicisti, che nel corso degli anni si cementa e dà vita a straordinarie avventure – si pensi al Quartetto Italiano, al duo pianistico Canino-Ballista, al sodalizio di Peter Pears e di Benjamin Britten, a Simon e Garfunkel, alle Spice Girls; anche qui in multiformi aspetti. E ovvio, ancora una volta, la complessità di alcuni oggetti di ricerca richiede collaborazioni strutturali di grande portata, come Atlas, che include 3000 persone (tra cui 1200 dottorandi) a vari livelli di partecipazione; anche se qui la nozione di collaborazione intellettuale si sovrappone a quella di organizzazione manageriale; le centinaia di firme apposte a ciascuna delle centinaia di pubblicazioni di Atlas hanno un aspetto più simile a quello dei credits di un film hollywoodiano che alla lista di autori di un articolo scientifico (e difatti molti degli articoli delle grandi collaborazioni non solo non vengono scritti, ma spesso non vengono nemmeno letti da chi li firma!).

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Si sa che le collaborazioni esistono, ma si sa poco della loro meccanica interna, di come funzionano giorno per giorno, di come nascono e muoiono. Lo straordinario libro di Michael Lewis solleva il velo su una delle più importanti ed emblematiche interazioni scientifiche del ventesimo secolo, quella tra Amos Tversky e Daniel Kahneman. Il pubblico italiano non ha probabilmente bisogno di una presentazione più che succinta: le teorie sul giudizio e sulla decisione di Tversky e Kahneman hanno completamente ribaltato la nostra comprensione di fenomeni essenziali nella vita quotidiana e hanno avuto effetti rivoluzionari sulle scienze economiche – le quali hanno onorato Kahneman con il Nobel nel 2002, sei anni dopo la morte prematura di Tversky. L’idea principale e dirompente è che ragionamento e decisione sono sistematicamente influenzati e controllati non da motivi psicologici occulti e remoti ma da meccanismi computazionali “proprietari” che se da un lato li rendono possibili dall’altro li distorcono e producono soluzioni non ottimali. In questo comportandosi in modo del tutto simile ai meccanismi computazionali della percezione, che se da un lato operano efficacemente per ricostruire un mondo di oggetti a partire da pezzi sparsi qua e là nella scena, d’altro lato producono sistematicamente illusioni che, di nuovo, non dipendono da motivi inconsci e occulti, ma sono il prodotto collaterale del funzionamento normale della percezione.

Un magnifico esempio citato da Lewis riguarda le euristiche di rappresentatività nel giudizio di probabilità: se vi si dice che Fido abbaia e ama inseguire le auto, e vi si pone la domanda se sia più probabile che Fido sia un cocker spaniel o un’entità qualsiasi nell’universo, anche se il ragionamento freddo vi dovrebbe portare alla seconda risposta, l’immagine del cocker spaniel è talmente più rappresentativa della storiella iniziale da rimbalzare incessantemente nel vostro cervello ed interferire con la riflessione posata. Negli anni ’70 Tversky e Kahneman hanno esplorato svariate di euristiche come questa, vere e proprie leggi gestaltiche del pensiero, in una sequenza mozzafiato di esperimenti.

La loro collaborazione si estende su venticinque anni, ma sono i primi dieci ad aver dato vita agli otto articoli fondamentali della teoria. Lewis, che ha avuto accesso a un vasto numero di fonti e testimonianze, racconta in modo avvincente gli esordi di ciascuno dei protagonisti in Israele durante le guerre alle quali entrambi parteciparono; l’incontro a un seminario in cui Kahneman rimase impressionato da Tversky senza condividere una sola parola di quanto aveva sentito; le personalità diverse e complementari (Kahneman che dubita di tutto e in particolare di se stesso, Tversky brillante e cartesiano); il periodo di brainstorm in Oregon, la difficile emigrazione americana, l’asimmetria tra Tversky percepito come superstar e Kahneman in secondo piano, la ricerca di altri collaboratori, le tensioni, la malattia e la morte di Tversky, il successo del Nobel, l’influenza immensa del lavoro congiunto.

Le pagine più belle del libro, per chi come gli scriventi ha avuto l’occasione di produrre più di un terzo del proprio lavoro in collaborazione stretta con l’altro, sono quelle in cui viene raccontato il pane quotidiano dell’interazione tra due persone focalizzate su problemi intellettuali. Come si è detto, ogni coppia è diversa, ciascuna ha le sue peculiarità; a partire dall’impiego della tecnologia e dai ritmi di lavoro (l’“uso” del partner come laboratorio di prova delle intuizioni, la scrittura di un paragrafo al giorno cesellato all’inverosimile, Kahneman sempre alla macchina da scrivere) e non vogliamo togliere al lettore di Lewis il piacere della scoperta. Vogliamo invece citare, a mo’ di complemento, due caratteristiche legate tra di loro del lavoro in coppia che abbiamo sempre trovato straordinarie e che svettano su molte altre, incluso il piacere impagabile di fare un viaggio lungo e pieno di imprevisti con un compagno.

In primo luogo, avere un partner intellettuale significa sostanzialmente saperlo sempre all’ascolto, e questo autorizza un’audacia che a soli non ci si consentirebbe. Uno va in direzioni nuove, nulla sembra poterlo fermare, proprio perché sa che se facesse un errore clamoroso (càpita) l’altro sarebbe pronto a segnalarlo. In secondo luogo, si sa che c’è l’altro che ci ascolta, che la sua disponibilità e la sua energia sono preziose, e quindi non gli si vuole dare in pasto qualsiasi cosa ci passi per la mente.

Come si noterà, questi due aspetti sono in tensione, quasi in contraddizione: audacia o autocontrollo? Ma è proprio in questa delicata dialettica che si manifesta il vantaggio imbattibile di una collaborazione. Verrebbe fatto di chiamarlo un abbandono etico, un lasciarsi andare senza distrazione, un mettersi nei panni dell’altro per immaginare che cosa penserebbe di fronte al problema che stiamo affrontando insieme. Si potrebbe anche dire che scrivendo in due si è più portati a non barare intellettualmente. Da soli si è sempre tentati di nascondere i punti deboli del proprio lavoro sotto il tappeto e sperare che gli altri non se ne accorgano. In due no: bisogna essere davvero convinti di quello che si dice, per rispetto reciproco e per forza di cose. Altrimenti meglio non dire. E questo è importante anche perché poi si impara meglio a fare così anche quando si lavora da soli (anche se non è detto che poi vi si riesca).

Raddoppiando il numero delle mani e degli occhi si allarga l’orizzonte mentale.

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