In Giappone con Giorgio Armani, fra Kyoto e Tokyo
«Se non fossi italiano, potrei essere giapponese», dice re Giorgio. Che ha scelto di sfilare con la collezione Resort 2020 nella capitale nipponica.
di Nicoletta Polla-Mattiot
6' di lettura
Cambiare orizzonte è sempre un satori, un delicatissimo cataclisma che fa vacillare quel che sai, la definizione dell'accadere zen. Non sono mai stata a Kyoto e, prima di partire, faccio due cose. Ascolto Inoue Yosui, una specie di Bob Dylan nipponico, idolatrato dai fan, con alcuni brani dolci come ballate country e altri ruvidi come l'ultimo Chet Baker, a cui sfugga, di tanto in tanto, un bizzarro pezzo da balera. Rileggo L'impero dei segni e mi sento libera di non capire. Roland Barthes è chiaro: l'agglomerato frusciante di una lingua sconosciuta è una deliziosa protezione, avviluppa in una pellicola sonora vuota. Che riposo all'estero, alleggeriti d'ogni significato! Vale anche per i codici visivi. Tutto, in questo viaggio, si fermerà alla superficie misteriosa del suono e degli occhi. Senza appigli conosciuti, senza spiegazione. Lo dico a Giorgio Armani che mi ha invitato ad esplorare questo suo posto d'elezione, fonte d'ispirazione da sempre, ma oggi ancora più speciale. Intanto perché si reca a Kyoto per la prima volta («Da tempo desideravo venirci, l'ho scelto come tappa intermedia per abituarmi al clima e al fuso orario»). Poi perché ritorna in Giappone dopo un'assenza di 12 anni e, in un Paese con un tasso di crescita dell'1,4 per cento, un tasso di occupazione al 97,2 per cento, che è la terza economia mondiale, anche un mese può fare la differenza («Nessun luogo è proiettato tanto verso l'avvenire, rispettando profondamente il passato», dice). Da Kyoto farà tappa a Tokyo («Tre ore di treno a bordo del celebre Shinkansen») e qui festeggerà la riapertura dell'Armani/Ginza Tower e darà vita a una sfilata-evento al Museo Nazionale, con la sua collezione cruise. Pochi giorni, un programma intenso.
Gli chiedo di farmi da guida e selezionare per me quello che non posso assolutamente perdere nella terra dei samurai. «Qui tutto è straordinario, l'elenco sarebbe lunghissimo. Tappa obbligata il tempio di Kiyomizu-dera a Kyoto, immerso in una natura rigogliosa da cui si vede l'intera città. Il tempio dei mille Buddha di Sanjusangendo: un edificio di legno scuro, dalla struttura essenziale e allungata. Guardandolo nulla fa presagire l'emozione che si prova entrando: la sala è enorme, popolata di statue ricoperte d'oro, tutte perfettamente allineate, lascia senza fiato. Poi il piccolo laboratorio Kondaya Genbey, che da generazioni crea kimono. Ho negli occhi la ricchezza e la poesia delle lavorazioni eseguite a telaio, quintessenza di una tradizione gelosamente preservata. Irrinunciabile il mercato di Nishiki, ordinato, vitale, ma silenzioso, ben diverso dalla vivace confusione dei mercati di altre parti del mondo, a Istanbul, a Marrakech».
Se potessi, aggiungerei a questa lista un incontro di sumo, dopo aver letto che il peggiore errore che possa commettere un rikishi, figura sacra, antica e mitica, di guerriero, è rivelare troppo di sé. Mi sembra si sposi così bene con quel misto di generosità e riserbo, ospitalità e rigore, che contraddistingue la riservatezza del mio ospite e che lo rende quasi più giapponese di un giapponese («Sì, se non fossi italiano, potrei essere giapponese. Non solo per l'estetica: amo la sintesi, l'economia di mezzi che crea il miglior risultato. Ma amo anche questa lingua elegante e musicale, e la discrezione delle persone, una qualità che apprezzo molto. Le donne hanno una grazia naturale: è una questione di ritegno, gentilezza ed educazione che traspare in tutto, anche nel modo di vestire»).
Con una pennellata (abbiamo fatto sumi-e) c'è tutto il mondo di Giorgio Armani e il suo legame con quest'orizzonte così lontano e ormai vicino, dove stiamo per atterrare. «A Tokyo, bisogna visitare il teatro Kabuki-za di Ginza e il tempio di Asakusa, il più antico della città», continua. «Né si può trascurare l'architettura più moderna: il museo Edo-Tokyo, che sembra una navicella spaziale, e il Mori Art Museum dove, nel 2005, venne allestita una retrospettiva del mio lavoro, organizzata dal Guggenheim. E poi i meravigliosi giardini che circondano la residenza privata della famiglia imperiale». Già, i giardini, la cui essenza è la minuzia e la cui vastità è tessitura del dettaglio. «La grande foresta di bambù di Arashiyama sembra, per certi versi, soprannaturale. Un'oasi incantata, dove i poeti trovano ispirazione», spiega. C'è un famoso haiku che parla proprio di questo: Vesti di bambù/lasciate dal Maestro/pioggia d'inverno. «Amo i bambù, il loro modo di proiettarsi verso l'alto, tanto che sono diventati, in una forma stilizzata, un motivo ricorrente nel mio lavoro. Ne ho fatti addirittura piantare alcuni nel giardino di casa mia». Questo è il punto: siamo qui, a oriente dell'oriente, ma siamo anche a Milano, nell'abitazione di via Borgonuovo, dove ogni oggetto sembra disposto secondo la stretta necessità dell'equilibrio; nel teatro di via Bergognone, dove Tadao Ando ha scritto la sua sintesi di luce e cemento; nello chalet di St. Moritz i cui interni assomigliano, nelle loro trame rettangolari, al silenzio figurativo dell'architettura domestica giapponese: si fanno scorrere i pannelli e l'immagine del giardino o della montagna penetra senza interferenze. Un universo familiare eppure remoto, esotico e personalissimo, che impronta di sé la più recente collezione casa, con le sue texture a intreccio, che ricordano l'obi, e le sfumature di nuvole, i riflessi d'acqua, gli azzurri e i rosa dei tessuti più leggeri.
Allo stesso modo, si rileggono e ritrovano qui alcune tappe storiche della moda Armani, tanto che, mentre si celebra la primizia assoluta di una sfilata cruise, Insula, si risale contemporaneamente indietro, fino all'autunno/inverno 1981. «Quando disegnai quella collezione, prendendo spunto dai costumi del film Kagemusha-L'ombra del guerriero di Akira Kurosawa, ancora non ero stato in Giappone, fu un innamoramento a distanza. Ci andai solo alla fine degli anni Ottanta, in occasione dell'apertura di tre boutique e ne fui impressionato profondamente, come sempre accade quando qualcosa si sogna e basta». Certe atmosfere, l'arte, i palazzi, l'eco di questo Paese, il suo nitore formale, ritornano nel 2012 con Giorgio Armani Privé Hommage au Japon e nel 2015 con Bamboo, oltre ad aver influenzato, fin dall'inizio, la definizione dell'interior design. In giapponese la parola ma incorpora lo spazio e il tempo, è il semplice intervallo nella continuità. Non importa quanti anni o attimi trascorrono, ci sono luoghi dove le cose risuonano, perché sono sempre collegate. È la stessa ragione per cui, quando parla di film, Armani può citare due giganti come Kurosawa e Kitano, e quando parla di libri tenere insieme l'imponente distanza di Tanizaki e Mishima. In questa tempistica svincolata dal tempo, c'è l'occasione anche per una riflessione politica, che, come una presa repentina, sposta in una sola mossa fuori dal dohy quello che non c'entra. «Con l'ascesa al trono di Naruhito, 126esimo imperatore, il nuovo periodo del regno sarà improntato sull'ordine armonioso, reiwa. Un concetto molto bello», dice Armani. «Spero possa radicarsi anche nel resto del mondo, tanto più in un periodo in cui emergono confusione, discordanza e si ergono tante barriere. Vorrei che, nella corsa verso il futuro, non andasse perduta la dimensione spirituale e umana». Così fanno i sumtori, con un semplice spostamento di peso, definiscono i confini invalicabili.Persino il viaggio nel cibo è tutt'altro che una divagazione. C'è Nobu, portato a Milano fin dal Duemila. E c'è Tempura Matsu a Kyoto («Ho provato dei piatti di cui non conoscevo l'esistenza. Di solito faccio un piccolo assaggio di tempura, divertendomi a usare le bacchette»).
Se il mondo Armani è un insieme coerente, dall'omakase (il menu degustazione nel ristorante di via Pisoni) alle confezioni di cioccolatini che paiono calligrafie, tutto è incorniciato dal principio della cura ospitale (il proverbiale omotenashi). Rileggo un appunto preso sul libro di Barthes: «Il cibo occidentale tende verso il grosso, il grande, l'abbondante, il prosperoso. L'orientale segue invece il movimento inverso, si dispiega fin verso l'infinitesimale». Ancora una volta la semplicità definita dal dettaglio. Il piccolissimo come misura del tutto. È un concetto ritmico oltre che estetico, un po' come questo percorso che dalla tradizione di Kyoto ci sta portando nel cuore di Tokyo, in una specie di staffetta di tempo e di temperatura. Dalla rarefazione dell'antico alla torrida velocità dei giorni della sfilata, i flash, il red carpet, la stampa internazionale, i party. E un bagno di folla da ora di punta. A vedere l'interminabile fila di giapponesi che assedia, ferma, abbraccia, si scatta selfie con Giorgio Armani, pare di circoscrivere, in una lunga linea umana, quella che lo stilista ha sempre definito “una positiva accoglienza”, legata a una caratteristica di questo popolo: «La ritualità, l'attenzione spasmodica al particolare e il godimento assoluto dello shopping come attività ricreativa». Il che, concretamente, oggi significa 779 dipendenti, 90 punti vendita di proprietà di cui 34 solo a Tokyo. Un impero nell'impero. «Questo è eccessivo», mi corregge. E lo dice con la stessa grazia ritrosa con cui un inchino saluta e si sottrae. «Diciamo che il Giappone contraccambia il mio entusiasmo!».
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