tempo ritrovato

In giro con Totò, quattro passi a Napoli con una guida «speciale»

di Roberto Escobar

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4' di lettura

«Forza, coraggio, cominciamo a visitare le bellezze di Napoli… si prega di allacciare le cinture», dice il Totò guida turistica di Totò a Napoli, messo in onda dalla Rai il 13 giugno 1967. Ora quell’invito gentile e perentorio torna in un piccolo libro che conduce il lettore per le strade, le piazze, le chiese, le luci vive e le ombre senza fondo della città in cui venne alla luce e ancora vive Antonio Griffo Focas Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria…, e a priori, anzi al priore Principe del Rione Sanità.

Da Santa Maria Antesaecula, alla Sanità, partono Loretta Cavaricci ed Elena Anticoli de Curtis nel loro A Napoli con Totò, viaggio tra i luoghi della città e i film di Antonio de Curtis. Al civico 109 una targa ricorda che in quella casa nacque Totò. O forse no. Forse nacque al 107, e poco dopo mamma Anna si trasferì con lui al portone accanto. Se lo interrogassimo sulla questione, magari ne approfitterebbe per risponderci oggi come nel 1952, sotto le mentite spoglie di Pupetto Montmartre di Champs-Élysées, risponde alla grande Franca Valeri di Totò a Colori. «Senti gioia mia, come nasci, stella?», domanda lei con stanchezza snob. «Come nascio io?», si sorprende Pupetto eccetera, appena sopraggiunto da quel di Caianiéllo: «Eh, nascio… nascio come nasciono gli altri...». Per chiarezza, fa il gesto antico della levatrice, tirando fuori con decisione quello che va tirato fuori da dove va tirato fuori.

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Appurato che tutti veniamo al mondo allo stesso modo, a Caianello o a Milano, siamo pronti per saperne di più sul fatto increscioso del partirsene, dal mondo. A questo proposito conviene ricordare che, se ha avuto due case natali, il Principe di funerali ne ha avuti tre.

Il fatto è andato così. Dopo le prime esequie, non quelle indistinte della telefonata di Totò e le donne (1952), ma quelle romane e tristissime del 17 aprile 1967, ne ha altre qualche giorno più tardi, quando la figlia Liliana lo porta a Napoli, al cimitero di Santa Maria del Pianto (lì, fra i molti segni della devozione popolare, in un quaderno oggi si può leggere: «Totò nostro che sei nei cieli, rimetti a me i miei debiti, ché i creditori mi corrono appresso»). Altre ancora, le terze, sono poi “imposte” a Liliana in quell’occasione da un signore che le batte sulla spalla. Si tratta di Gennaro Campolongo, detto Nas’ ’e cane, serissimo e compostissimo guappo della Sanità. «Questa cosa non può andare così», dice a Liliana, Totò deve avere i suoi funerali a Napoli, «sotto la mia protezione».

Il 22 maggio, trenta giorni dopo la sua morte, una folla immensa accompagna il Principe da Santa Maria Antesaecula fino alla chiesa di San Vincenzo Ferrer, detto ’o Munacone (uno spagnolo mai stato a Napoli, peraltro). In realtà la bara è vuota, secondo le tradizioni del trigesimo, e sulla cassa c’è la sua fotografia. Se a Roma lo hanno pianto in trentamila, qui centocinquantamila lo piangono in effigie. Per dirla con la lettera sublime di Totò, Peppino e… la malafemmina (1956), tutta gente per niente tirata, quanto a esequie.

A Napoli la morte è una cosa seria, tanto seria che “vive” da secoli nelle sue viscere. Alla Sanità questo accade da millenni, da quando i partenopei e partenapoletani dell’epoca greca e romana vi seppellivano i loro morti. Lì ancora oggi il mondo dell’aldiquà è in relazione con il mondo dell’aldilà, scrivono le autrici. Standoci attenti, vi si può scorgere a passeggio il cavaliere Antonio Marchi. Per chi non se ne ricordi, si tratta del «morto di giornata» di Totò all’inferno (1954), l’omino che nel regno di Satana incontra un vecchio amico (Dante Maggio) con vent’anni d’anzianità tra le fiamme, da cui impara come «loro napoletani» se la cavino anche lì. Non che Totò necessiti di maestri, in questi luoghi. Come sapeva Geno Pampaloni, il Principe «si aggira per l’inferno come se fosse il paradiso». E con più familiarità.

Torniamo ai vivi, in Santa Maria Antesaecula così com’è oggi. Anzi, così come doveva essere più di cent’anni fa. È questo il palcoscenico d’esordio del giovanissimo Antonio, che di studiare pare non abbia voglia. Quanto alla scuola, amava dire il Principe, «sono un retrocesso e scusatemi per la rima». Per un po’ la madre lo immagina prete, ma lui ha tutt’altro per la mente («manco ’o prevete sape fa’», dirà poi delusa). C’è il fatto delle donne. Senza non può pensare di stare. Ci andrebbe anche volentieri, in seminario, si trattasse solo di dir messa secondo i riti, vestito con amitto, camice, cingolo e stola. Questo gli piace, far teatro. Non a caso il suo primo spettacolo risale al 1905.

Un giorno, a sette anni, gli tocca scendere nel vicolo indossando un paio di pantaloni larghi e alti di vita, ricavato da un vestito a fiori della madre (rose rosse, vistose). «È arrivato ’o femminiello… È arrivato ’o femminiello…», esplodono i suoi crudeli compagnucci. Lui allora si leva i pantaloni, e in mutande, con le mani sui fianchi, agita le gambette magre. La messa in scena è così divertente, che le urla di scherno si trasfigurano in un applauso fragoroso e la derisione si capovolge in riso. Nasce allora la sua maschera? Se gli altri vogliono ridere, rispondono comunque le autrici, ora è certo che il Principe li saprà accontentare, al priore.

A Napoli con Totò. Dalla Sanità alla Luna, Loretta Cavaricci, Elena Anticoli de Curtis, Giulio Perrone Editore, Roma, pagg. 144, € 12

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