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« Mio figlio dopo la laurea in ingegneria navale, in Italia ha avuto 4 offerte a 500 euro ed è andato a Brema dove lo pagano 3mila euro al mese». «Un mio giovane parente laureato al Politecnico di Milano in ingegneria industriale e specializzatosi al Delft in Olanda ha contattato varie aziende italiane. Una di queste gli ha offerto l’assunzione con uno stipendio di 1.250 euro. Il ragazzo ha rifiutato e due mesi dopo è stato assunto da una grande azienda del nord Europa con uno stipendio iniziale di 3.350 euro». «Ho 42 anni, parlo 4 lingue ed ho esperienza manageriale internazionale e chiedevo un basic salary netto di 3.000 euro al mese piu commission. Com’è che continuo a ricevere offerte da Londra, Dublino, Amsterdam, Berlino, Hong Kong e dall'Italia quasi nulla?».
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Sono alcune reazioni dei lettori del Sole 24 Ore agli articoli pubblicati all’interno del dossier «#lavoratorecercasi» , dove sono raccolte le segnalazioni delle imprese alla ricerca di nuovo personale in Italia. Lo scenario del nostro paese vede contrapporsi da un lato un tasso di disoccupazione giovanile che supera il 30%, dall’altro posti vacanti in crescita (il tasso di posti vuoti nelle imprese dai 10 dipendenti in su è passato dallo 0,7% del 2015 all’1,2% attuale) e aziende che faticano a trovare i candidati giusti in oltre un caso su quattro.
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Stando alle ultime rilevazioni del sistema informativo Excelsior di Anpal-Unioncamere su 428mila assunzioni previste nel mese di luglio il 26,6% è di difficile reperimento, percentuale che sale al 36,1% per gli operai specializzati e al 39,2% per le professioni tecniche.
Dietro le tante sfaccettature del mismatch tra domanda e offerta di lavoro, ci sono anche il fenomeno della overeducation che si lega a doppio filo alla difficoltà di un tessuto produttivo dominato da aziende di taglia small di assorbire profili iperqualificati che sempre più spesso decidono di varcare i confini nazionali attratti a proposte economiche più allettanti. La questione dei bassi salari è certificata dai numeri: in Italia, come evidenzia l’Ocse, un cuneo fiscale tra i più alti al mondo (al 47,9% rispetto a una media del 36,1%) da un lato fa schizzare verso l’alto il costo del lavoro e dall’altro zavorra la busta paga netta dei lavoratori.
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Stipendi sotto la lente: Italia agli ultimi posti nella Ue
Considerando solo i paesi dell’area euro in Italia la retribuzione annua netta di un lavoratore è in media di 21.469 euro, rispetto a un costo del lavoro di oltre 41mila euro. La retribuzione netta dell’Italia è simile a quella della Spagna, dove però il costo del lavoro corrispondente non raggiunge i 35mila euro.
Gli stipendi netti più elevati sono in Lussemburgo (quasi 42mila euro), Danimarca e Olanda (entrambe intorno ai 36mila euro), Irlanda (vicina ai 35mila euro), Austria (31.663 euro) e Germania (30.474 euro).
In Italia è ancora forte il gap tra scuola e lavoro, tra quello che si studia e quello che poi si mette in pratica nel mondo del lavoro. Almeno nei primi anni successivi al conseguimento del titolo.
Troppo istruiti per il lavoro che si fa
Incrociando il titolo di studio e le mansioni svolte dai lavoratori più giovani - sulla base dei microdati Istat - risulta che oltre il 24% (come dire uno su quattro) è overeducated, ha cioè un titolo di studio che è troppo elevato per il lavoro che fa. Si tratta di 437mila lavoratori su 1,1 milioni di laureati tra i 25 e i 34 anni e 678mila diplomati tra 20 e 24 anni.
Si tratta del 18% dei diplomati e del 28% dei laureati: tra i primi la sovraistruzione è più marcata tra gli uomini (riguarda il 24% dei maschi contro il 9% delle femmine), mentre tra i secondi accade il contrario (il 30,5% delle laureate è iperqualificato rispetto al 20,1% dei maschi).
E il “plotone” degli overeducated si è allargato rispetto sia ai 372mila giovani del 2008 sia ai 398mila del 2015.
In realtà - allargando il focus su tutti i lavoratori e analizzando i dati dell’Ocse - in Italia coesistono overeducation e undereducation. il 6% dei lavoratori possiede competenze inferiori a quelle richieste dal posto di lavoro e il 21% è sotto qualificato; allo stesso tempo, però, i lavoratori con competenze in eccesso sono 11,7% e quelli sovra-qualificati il 18%. Inoltre, circa il 35% dei lavoratori è occupato in un settore non correlato ai propri studi, una delle percentuali più elevate nell'area Ocse.
«Questo mismatch nelle qualifiche e competenze - commenta Stefano Scarpetta, capo della direzione Lavoro dell’Ocse - è un aspetto chiave della situazione strutturale dell'economia italiana che si è arenata in quello che può essere definito un equilibrio basso. A fronte dei miglioramenti nei tassi di occupazione, la produttività del lavoro e totale dei fattori sono addirittura diminuite, riaprendo un gap crescente con altri paesi avanzati come Stati Uniti, Germania e Francia» .
Le ragioni? «Molteplici - risponde Scarpetta - ma alcune affondano le radici in un mercato del lavoro in cui a un livello relativamente basso di competenze disponibili si è affiancata una debole domanda di competenze avanzate, e quindi un loro uso limitato».
In Italia, più di 13 milioni di adulti hanno competenze di basso livello, percentuale tra le più elevate tra i paesi Ocse, e l'investimento in capitale umano è modesto se si pensa che solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è laureato rispetto alla media Ocse del 30%.
Inoltre, anche a causa di trend demografici negativi, il numero assoluto di studenti iscritti all'università è sceso dell'8%, tra il 2000 e il 2015 e solo negli ultimi anni ha ripreso timidamente a salire.
«La scarsa domanda di competenze e il mismatch - sottolinea Scarpetta - sono dovuti a una struttura economica in cui accanto a imprese relativamente grandi, che competono con successo sul mercato globale e richiedono competenze di eccellenza, ve ne sono molte altre che operano con un management dotato di scarse competenze e lavoratori con livelli di produttività modesti. Insufficienti livelli di skills tra manager e lavoratori si combinano con bassi investimenti in nuove tecnologie che richiedono più elevato capitale umano, ma anche con un basso utilizzo di pratiche di lavoro innovanti oramai essenziali per stimolare la produttività».
Senza contare che spesso i salari in Italia sono prevalentemente legati all'età e alla tipologia del contratto di lavoro, più che alla performance individuale, e ciò disincentiva un uso intensivo delle competenze sul posto di lavoro.
Questa situazione crea una situazione paradossale: il ritorno nell'investimento in competenze è basso in Italia il che scoraggia i giovani a investire nella loro istruzione e questo scarso investimento in capitale umano frena gli investimenti e la creazione di posti di lavoro a più alta produttività e remunerazione in un pericolo circolo vizioso.
Come se ne esce? «Da un lato occorre senz’altro un intervento in profondità sulla domanda - conclude Scarpetta - attraverso un rinnovato sforzo per promuovere l'investimento, l’innovazione e un mercato del lavoro fluido e che offra adeguata protezione ai lavoratori. Dall'altro lato, però, senza uno sforzo massiccio nell'investimento in capitale umano è difficile avviare l'Italia lungo un sentiero di crescita forte e sostenuto nel tempo».
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