In Nagorno-Karabakh inizia la nuova politica estera di Mosca
L’operazione militare con cui l’Azerbaigian ha ripreso il controllo del Nagorno-Karabakh dopo trentacinque anni ha conseguenze gigantesche per il Caucaso e in particolare per il destino dell’Armenia, oramai nel mirino di Mosca per una possibile, futura, “riconquista” imperiale.
di Carolina De Stefano
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L’operazione militare con cui l’Azerbaigian ha ripreso il controllo del Nagorno-Karabakh dopo trentacinque anni ha conseguenze gigantesche per il Caucaso e in particolare per il destino dell’Armenia, oramai nel mirino di Mosca per una possibile, futura, “riconquista” imperiale.
L’accordo tra Baku e Erevan che in pochi giorni ha portato al ritiro tanto delle forze armene quanto di quelle delle autorità locali pro-armene, in effetti, non è, come molti l’hanno definito, un «cessate il fuoco», ma molto più semplicemente la resa dell’Armenia di fronte all’Azerbaigian. L’Artsakh, come gli armeni chiamano questa regione situata in Azerbaigian dal 1921 e la cui popolazione è a stragrande maggioranza armena, non esiste più. Esisterà invece una regione pienamente reintegrata dell’Azerbaigian, privata della sua componente armena, e alla quale forse (ma forse no) verrà lasciato un certo grado di autonomia.
In tale contesto, una grande novità è la politica adottata da Mosca, che ha abbandonato il suo ruolo di mediatrice e arbitro super partes avuto fin dall’inizio del conflitto scoppiato tra Armenia e Azerbaigian nel 1988 per la regione. Per quanto la Russia rivendichi tuttora il diritto di mantenere i suoi duemila peacekeepers presenti sul territorio per monitorare la situazione, ha di fatto lasciato che l’Azerbaigian riprendesse il controllo del Nagorno, abbandonando l’Armenia. Negli ultimi nove mesi gli azeri hanno bloccato con delle scuse il corridoio di Lachin che collegava l’Armenia alla regione separatista e che dal 2020 era controllato da peacekeepers russi. Invece di opporsi alla violazione degli accordi da parte del governo azero e garantire il passaggio di cibo e medicinali, i soldati russi sono rimasti a guardare immobili il degradarsi della situazione in Nagorno, trasformatasi nelle ultime settimane in una vera e propria emergenza umanitaria che ha permesso all’Azerbaigian di penetrare il territorio e trovare una popolazione allo stremo e pronta ad arrendersi. Anche di fronte alla morte di alcuni peacekeepers russi sotto i colpi dell’artiglieria azera, il Cremlino non ha mostrato di volere entrare in conflitto con l’Azerbaigian e ha anzi fatto sapere che riconosceva la sovranità di Baku sulla regione, implicitamente negando il diritto all’autodeterminazione dei popoli su cui si basano invece le rivendicazioni armene e locali.
Prendendo le parti dell’Azerbaigian, la Russia ha voluto mettere fine una volta per tutte a uno dei conflitti “congelati” ereditati del crollo dell’Urss. La nuova linea si spiega con una Mosca occupata e distratta dal conflitto in Ucraina, e quindi impossibilitata a mantenere una presenza militare e una posizione credibili in altre aree dello spazio ex sovietico. Ma c’è di più. Nel rinunciare al suo ruolo “sovietico” di garante delle relazioni tra Paesi dell’ex Urss, la Russia entra in una fase nuova. Per tre decenni Mosca ha trattato le ex repubbliche come il suo giardino di casa (l’«estero vicino») e continuato a gestire problemi esistenti dal crollo sovietico in maniera inerziale, da «post-impero», tra cui il Nagorno. Ora, invece, sta prendendo forma davanti ai nostri occhi e per la prima volta una vera e propria politica estera russa apertamente aggressiva nei confronti di tutte le ex repubbliche sovietiche e non solo dell’Ucraina. Il controllo su entità de facto separatiste non basta più e la tradizionale retorica di Mosca da «fratello maggiore» benevolente è ormai un ricordo. Si apre una fase di aperta «riconquista» (altra questione è vedere se la Russia può permetterselo e chi vi si opporrà nel Caucaso e altrove). Più la guerra in Ucraina andrà avanti, più a Mosca sembrerà in effetti inevitabile puntare a rafforzare controllo e influenza sui propri vicini, soprattutto se tentati dal cercare nuove alleanze. Dopo la Bielorussia, è il turno dell’Armenia, da sempre l’altro vicino più vulnerabile di Mosca, e che ora lo è a maggior ragione: con un governo nazionale annientato dalla perdita del Nagorno-Karabakh e decine e decine di migliaia di russi che nell’ultimo anno e mezzo si sono installati a Erevan. Per questa ragione, sostenere che con la fine della contesa per il Nagorno-Karabakh la Russia ha perso peso nel Caucaso è più che prematuro, nonostante l’influenza crescente di Turchia e altri attori nella regione.
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