Graphic novel

In una Venezia parallela, Pierrot e Dora sulle onde della telepatia

Nella sua ultima opera, “Celestia”, Manuele Fior racconta la storia di due ragazzi, giovani esponenti di un'umanità nuova che si è emancipata dal linguaggio verbale. Potenza visiva, emozionale, e un indimenticabile personaggio femminile

di Michele Casella

6' di lettura

Il talento di Manuele Fior è quello di immaginare un'umanità nuova. Non nel senso del pedante alternarsi delle generazioni, che decennio dopo decennio spostano l'asse delle abitudini in maniera tanto indistinguibile quanto inesorabile. Fior è capace di immaginare mutazioni che possano davvero cambiare le relazioni personali, scollegando la comunicazione tra individui da quel virus che è il linguaggio verbale e riaffermando il potere del segno se non addirittura quello del pensiero.

Sia ben chiaro, la sua nuovissima opera, Celestia, mostra un dettaglio della nostra vita attraverso la lente di ingrandimento della fantascienza, ma lo fa con una tale potenza visiva ed emozionale da catturare il lettore in maniera assolutamente empatica. Ed è beffardo che il doppio volume uscito per Oblomov arrivi in libreria proprio quando un virus molto più aggressivo della parola ha trasformato la vita reale in una distopia in cui distanza, comunicazione, affetti e dolore si connotano di nuovi significati e inaudite manifestazioni.

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Celestia è il racconto cromaticamente abbacinante di un viaggio compiuto da due ragazzi, Pierrot e Dora, che come spesso accade compiono un percorso di formazione, ma che possiedono il dono della telepatia. Attraversando fuochi notturni e correnti maestose, castelli labirintici e umide nottate, aggressioni all'arma bianca e silenziose seduzioni, i due giovani si perdono in una Venezia spettrale e fantasmagorica, così bella da risultare meravigliosamente spaventosa. Ma Celestia è soprattutto la storia di personaggi indimenticabili, prima fra tutti Dora, l'affascinante fanciulla dal temperamento incontenibile che avevamo già conosciuto nel graphic novel del 2013 L'intervista.

Raggiungiamo Fior telematicamente nella sua isola domestica parigina, forzatamente rinchiuso in questa bislacca realtà che ha tutti i connotati di un brutto b-movie di fantascienza. Lontano dal suo studio e privo dello scanner, il quarantacinquenne cesenate ci apre il suo mondo di passioni e di prospettive, proponendo una visione artistica che possiede un'unica direzione: andare oltre.

Manuele Fior, 45 anni: «Dobbiamo riappropriarci di idee che si stacchino dalla convezione, al fine di immaginare cose nuove!».

Nel tuo libro la telepatia serve a far comunicare persone distanti, ma questa connessione avviene a un livello assai intimo e talvolta doloroso. Tutto l'opposto dell'attuale comunicazione nell'era dei social media, in cui ogni cosa scivola sulla superficie delle cose. Che relazione c'è fra pensiero telepatico e tecnologia?
«Sono immerso come tutti nel digitale, mi informo e comunico attraverso il Web, ma nel mio libro cerco di “bypassare” la tecnologia. Secondo me abbiamo la tendenza di pensare al futuro sempre come a uno sviluppo dettato dalla tecnologia, come se non ci fosse un'alternativa. Invece possiamo anche immaginare che esso appartenga ad altre facoltà umane, fantastiche come il volare o la telepatia. Il tappeto volante e la mitologia del volare sono presenti in tutti i tipi di narrazione e favoriscono scenari diversi dai buchi neri in cui la tecnologia ci trasporta. Dobbiamo riappropriarci di idee che si stacchino dalla convezione, al fine di immaginare cose nuove!».

“Celestia” è un'opera complessa ma dalla storia fondamentalmente lineare, uscito in due volumi da leggere tutti d'un fiato. Che effetto ti fa vedere questa tua opera pubblicata proprio nei giorni dell'emergenza Coronavirus?
«Il fatto che la seconda parte esca in questo momento è un fatto di per sé molto intenso, ed è inevitabile che io faccia delle analogie fra quel che accade nel libro e il fatto che la gente sia confinata in condomini, che ci siano persone contagiate in laguna e che il senso di comunità nasca oggi anche dall'essere distanti. Non sono un paragnosta e non credo nei poteri magici, ma Celestia racconta il presente attraverso la lente della fantascienza, con una storia che mi scuote ma che allo stesso tempo mi conforta, data la situazione drammatica che ci troviamo a vivere».

I protagonisti del libro vivono una relazione controversa, ma il tema centrale resta quello della telepatia: in che modo hai voluto interpretarlo?
«In Celestia tratto la tematica del riavvicinamento, immagino che la telepatia non sia un'abilità magica per leggere le carte bensì una capacità umana di tele-patire, patire a distanza, essere complice di un certo legame che non è semplicemente quello dell'amicizia, dell'amore che ci collega l'uno all'altro. È più una comunicazione dello stesso destino. Jung lo chiamava il filo d'oro, che riconosciamo solo quando il velo di Maya si solleva, e che riusciamo a scorgere nel momento in cui diventiamo in grado di vedere in profondità. Penso che la traccia più importante del mio libro sia una forma di comunione che già possediamo e che dobbiamo ricordare. In diversi punti si parla di una lingua dimenticata, una capacità che avevamo e che solo in determinate situazioni ritorna alla memoria. Questo era un aspetto affascinante della letteratura di fantascienza, non sono il primo a interpretare la telepatia in questo modo. Per esempio Arthur Clark lo fa nel romanzo Le guide del tramonto, in cui ne parla come di un linguaggio rimosso a causa della parola. La letteratura fantascientifica interpreta spesso il bambino che non ha imparato a scrivere come più ricettivo a una comprensione non verbale».

Dora è un personaggio intrigante e coinvolgente, capace di irretire tanto il lettore quanto l'autore. Nelle pagine di “Celestia” e de “L'intervista” mi sembra di percepire la tua fascinazione per questa eroina…
«Per me si tratta del paradigma del personaggio che nasce inaspettatamente in una storia e che poi prende il comando della situazione. All'inizio, L'intervista nasceva per raccontare la storia di Raniero e Nadia, con Dora che era soltanto la prima paziente di Raniero. Da principio c'era solo un disegno di una ragazza con un gran nasone, che mi ricordava questi profili bellissimi di Leiji Matsumoto. Donne dotate di una bellezza eterea anche se disegnate con un grande naso, ragazze dalle linee filiformi e affascinanti. Dopo, invece, ho cominciato a disegnarla come un personaggio sbilenco ma bellissimo, ho capito che mi piaceva, che volevo continuare a raffigurarla. Un po' come un regista che desidera continuare a fare film con un attore, come Mastroianni per Fellini. Il mio legame con Dora è come un gioco. Si tratta di tipologie di personaggi in cui puoi convogliare più pezzi di te stesso, anche se assai diversi, per esempio perché io sono un uomo e Dora è una donna».

Anche se decisamente distanti, “Celestia” e “ L'intervista” sono due storie decisamente affini, per certi versi speculari…
«Esatto, i due libri sono legati, nel senso che sono entrambi inseriti nello stesso universo narrativo, ma non si tratta di un sequel, bensì di uno spin-off, di un'espansione. Ne L'intervista la telepatia veniva fatta scaturire da apparizioni nel cielo, mentre in Celestia si dà per scontato che questa abilità esiste, si comincia a speculare su che cosa possa voler dire e come possa cambiare i personaggi. E se Pierrot da principio vuole continuare a vivere in un mondo in cui questa capacità non esiste, d'altro canto un altro personaggio, Raffaella, non parla neanche più. Celestia racconta di linguaggi, di società e di confronto fra generazioni».

Accanto a una linea narrativa fondamentalmente basata sul viaggio e sulla scoperta, “Celestia ” si mantiene spesso criptico e poco incline alla facile decifrazione. Perché hai scelto di non svelare alcuni aspetti della storia?
«Non penso che spiegare sia la funzione principale di una storia, penso che sia competenza di altri. Mi piace mostrare simboli, cose che galleggiano nella mente e che non trovano una spiegazione precisa. Qualcosa che si riveli diverso a seconda di chi le legge. Creo una specie di percorso, soprattutto visivo, che desti nel lettore una reazione sempre differente. Cerco di fare in modo che i personaggi non siano mai catalogabili come vincitori o sconfitti, ma che continuino a interrogare il lettore e soprattutto me. I personaggi di Celestia vanno presi come simboli, portatori di significato, e mi fa piacere che ogni lettore scopra i propri significati».

“Celestia” è anche un'opera davvero potente dal punto di vista visivo, soprattutto cromatico.
«Ho lavorato a tempera, sulla quale ho fatto molta esperienza con Le variazioni d'Orsay e centinaia di altre prove. Si tratta di una tecnica a me congeniale. Il colore non è mai una cosa che viene dopo, ma arriva subito nel disegno e nella storia. Il colore cambia la storia. C'è pochissima post-produzione, è una battaglia campale sul foglio. Il risultato lo devi portare a casa sul foglio».

Che cos'è per te “ Celestia” ?
«È una Venezia parallela. Non una metafora di Venezia, ma un universo parallelo. Si trova nello stesso posto geografico, ne condivide la storia e gli edifici, ma le cose non sono andate esattamente come le conosciamo noi. Son voluto partire da una città unica dal punto di vista storico e geografico, un'isola costruita dall'uomo, la cosa meno naturale che ci sia. Tutta la laguna è infatti un microambiente creato e modificato dall'uomo, modificato proprio perché questo ecosistema possa esistere. Ma ancora una vota si tratta di un simbolo, per esempio dell'artificio umano. Per cui è una città contenitore di un sacco idee, una città tutt'altro che morta».

Come funziona il tuo lavoro in questi giorni e su che cosa si baserà il tuo prossimo libro?
«A parte sbrigare la contingenza, soprattutto le illustrazioni, sto maturando un po' di roba molto fertile sull'immaginazione. Stanno arrivando molte idee e sto pensando a una storia che avrà ancora a che fare con il tempo, anche se alla fine si parla sempre di presente. Una storia in cui si torna leggermente nel passato, negli anni Novanta, gli ultimi in cui abbiamo provato a immaginare il presente dei nostri giorni».

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