Inapp, welfare sbilanciato: favorite le pensioni, si spende poco per i servizi sociali
Secondo uno studio dell’Inapp la spesa per i servizi e le misure di attivazione per i disoccupati rappresenta lo 0,2% del Pil, contro la media europea dello 0,6%
di Giorgio Pogliotti
I punti chiave
4' di lettura
Per la spesa sociale l'Italia rappresenta nel contesto europeo un paese sbilanciato: si spende poco per gli investimenti sociali (in capitale umano, in servizi di cura, conciliazione, politiche attive del lavoro) e si propende per i trasferimenti monetari di natura passiva (per lo più pensioni di vecchiaia e superstiti) con un basso livello di condizionalità all’accesso. La spesa per i servizi e le misure di attivazione per i disoccupati rappresenta solo lo 0,2% del Pil, collocando il nostro Paese alle ultime posizioni, a fronte di un valore medio europeo dello 0.6%,
È quanto evidenzia l’Inapp (Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche), che ha presentato i risultati di due rapporti di ricerca frutto, rispettivamente, di una convenzione con l'Università Luiss Guido Carli – Sep e del progetto europeo Mospi.
Spesa complessiva per prestazioni sociali sopra la media Ue
Abbiamo un sistema di welfare con una spesa per le prestazioni sociali elevata, considerando che in Italia si attesta sopra la media Ue (28,3% del Pil contro il 26,9%) ma orientato per lo più verso la spesa previdenziale che secondo l'ultimo dato Eurostat disponibile (2019), assorbiva percentuali rilevanti del Pil (oltre il 16%), o il sostegno “passivo” ai redditi. Di contro, abbiamo un «insieme di prestazioni sottodimensionato rispetto sia ai mutamenti della domanda sociale, sia agli obiettivi di ricalibratura agli standard europei che appaiono ancora lontani dall'essere raggiunti.
«Prevale un generale orientamento verso i trasferimenti monetari, e per lo più di natura previdenziale – spiega Sebastiano Fadda, presidente dell'Inapp –. Per molti aspetti l'Italia sembra un paese che resta indietro anche rispetto alla nuova agenda di investimento sociale dettata a livello europeo. Da questa linea non si discostano le trasformazioni che negli ultimi anni hanno dato luogo a interventi di grande rilievo, a cominciare dal contrasto della povertà. L'introduzione prima del Rei e poi soprattutto del Reddito di Cittadinanza ha comunque rappresentato una indubbia novità rispetto al sentiero istituzionale del welfare italiano, essendo stata introdotta per la prima volta una misura nazionale di contrasto alla povertà di dimensioni paragonabili a quelle dei principali paesi europei».
58% spesa sociale per pensioni di “vecchiaia e superstiti”
Dal punto di vista della composizione della spesa sociale l'area di intervento “vecchiaia e superstiti” copre il 58,3% della spesa sociale, seguita da “malattia/salute e invalidità” (28,6%), “famiglia/figli” (3,9%), “disoccupazione” (5,7%) e “contrasto alla povertà ed esclusione sociale” (3,5%).Le misure più recenti hanno attutito gli effetti della crisi pandemica su disuguaglianze e rischio povertà (reddito di cittadinanza, Rem), ma restiamo indietro sul fronte dei servizi, per quanto riguarda sia la presa in carico socio-assistenziale, sia l'attivazione per l'inserimento lavorativo.
C’è ancora molta strada da fare per modificare una traiettoria storico-istituzionale consolidata: «Occorre una spinta più decisa alla ricomposizione della spesa sociale a favore dei servizi (scuola e formazione, sanità, servizi di cura e di assistenza, politiche attive del lavoro) per un accesso universale alla protezione sociale e una diminuzione delle diseguaglianze - aggiunge Fadda. Inoltre, la presenza di diffuse condizioni occupazionali discontinue e a bassa retribuzione da un lato pone un serio problema di natura previdenziale per un sistema pensionistico a contribuzione e dall'altro manifesta l'esigenza di garantire una soglia minima di retribuzione al di sotto della quale per nessun lavoratore sia consentito scendere».
Cresce l’occupazione “fragile” insicura e mal retribuita
Il basso livello di spesa per le politiche sociali e il persistere di un sovraccarico di funzioni di cura sulla famiglia si traduce in una bassa partecipazione femminile e un basso livello dell'occupazione a più alto valore aggiunto. E cresce il cosiddetto lavoro ‘fragile', ovvero l'occupazione più insicura e mal retribuita, con lavoratori sempre più vulnerabili ai cambiamenti della loro condizione occupazionale e del loro reddito. Già prima della pandemia, nel 2019, le assunzioni a tempo determinato dalla durata inferiore a una settimana rappresentavano circa il 29% delle assunzioni a tempo determinato totali. I contratti dalla durata compresa tra una settimana e un mese, sebbene inferiori in valore assoluto, sono in aumento: da circa 50mila a più di 80mila.
«Molto spesso lavoratore fragile vuol dire anche lavoratore povero - sottolinea il report-. Il rischio di diventarlo dipende fortemente dal tipo di contratto: è circa il doppio per i lavori part-time (15,8%) rispetto a quelli a tempo pieno (7,8%) e quasi 3 volte superiore per i lavoratori con un lavoro temporaneo (16,2%) rispetto a quelli con contratti permanenti (5,8%)».
Per gli autonomi rischio doppio di cadere in povertà
I contratti dalla durata inferiore ad un anno sono ampiamente diffusi (18,3%) tra i lavoratori poveri, molto più di quelli con un anno o più di durata (9,1%). Come nella maggior parte dei paesi europei, l'incremento del numero dei lavoratori poveri è stato accompagnato da un aumento del tasso di povertà (registrando alti livelli persino prima delle due crisi 2008 e 2020) e del lavoro precario.
Accanto ai lavoratori a tempo determinato, si trova un'altra categoria di lavoratori fragili: i lavoratori autonomi, che spesso sono in realtà parasubordinati, con il doppio delle probabilità rispetto ai lavoratori dipendenti di cadere in povertà ed esclusione sociale.
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