Letteratura

Incentivi al bene comune

di Giorgio Barba Navaretti

Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290-1348), «Allegoria del buon governo», 1338-1339, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena

4' di lettura

Economia del bene comune , l’ultima fatica del premio Nobel francese Jean Tirole, è un libro di divulgazione e riconciliazione. Un libro che prova a spiegare con lucida e intelligente pacatezza le ragioni degli economisti e della scienza economica nella costruzione del benessere collettivo.

La grande crisi ha generato una diffidenza profonda e animosa contro la fredda razionalità economica, imputando al mercato senza regole la caduta verso la rovina e agli economisti di essere complici ciechi del disastro (in quanto paladini delle virtù del mercato, incapaci di vedere cosa stesse succedendo).

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Tirole, con grandissima pazienza, ricuce tutte le ferite. E lo fa con un trattato lunghissimo, che parte dal mestiere dell’economista, quotidianità, obiettivi, pratica professionale, per arrivare ai grandi punti interrogativi della contemporaneità: cosa ha generato la grande crisi? A cosa serve la finanza? Come si risolve la disoccupazione? Come si regolano le industrie? Come si protegge l’ambiente?

Ne esce un’analisi profonda di perché la società abbia bisogno sia degli economisti che del mercato. E l’idea alta che ogni processo decisionale di natura economica, dalle decisioni individuali di tutti i giorni, alle grandi scelte politiche, potrebbe e dovrebbe portare al bene comune. E che l’economia è una disciplina fondamentale per identificare le istituzioni e le politiche per raggiungere questo bene comune e per conciliare interesse individuale e interesse generale.

Cos’è il bene comune per Tirole? Banalmente ciò a cui aspiriamo per la società. Ma cosa? E chi aspira a cosa? E quale società? Il punto di partenza potrebbe essere lo stato di natura e il velo di ignoranza nello spirito di Hobbes, Locke e Rousseau, e poi ripreso in epoca contemporanea nella teoria della giustizia di John Rawls, ossia le preferenze di un individuo non contaminato dal contesto sociale ed economico in cui vive. Il principio del velo dell’ignoranza viene declinato da Tirole in un contesto in cui qualunque individuo, qualunque cosa faccia, dal politico al filosofo all’uomo di chiesa o d’affari, comunque risponde a degli incentivi, a cui ciascuno è continuamente sottoposto. Dunque, il velo dell’ignoranza riguarda la propria condizione relativamente a una qualunque azione. Rispetto a guidare l’automobile, non so se ne sarò l’utilizzatore beneficiario (ho la possibilità di spostarmi da un posto all’altro) o la vittima (respiro i fumi dell’automobile o ho una certa probabilità di essere investito). E posso così tirare le somme per capire se i benefici sono maggiori dei costi e dunque decidere se guidare l’automobile sia davvero un’azione che porta a un bene comune.

Naturalmente il velo d’ignoranza è spazzato via dalla realtà, dove generalmente ciascuno sa molto bene se sia vittima o carnefice: se accelero perché ho fretta, so bene che guido e che inquino di più e se investo un pedone si fa male lui. Ed è spazzato via dal fatto che tutti noi abbiamo ruoli sociali precisi e rispondiamo agli stimoli partendo da queste posizioni. Ma avere in mente il bilancino fatto sotto il velo dell’ignoranza può essere molto utile per comprendere come possa essere migliorato l’impatto sociale di qualunque azione, modificando gli incentivi che guidano gli individui e responsabilizzandoli sulle ricadute sociali delle loro azioni. Se l’incolumità del pedone vale più della mia fretta, i limiti di velocità e i semafori mi faranno andar piano e ridurranno la probabilità che io investa qualcuno.

Tirole contrappone in modo molto forte il concetto di incentivo a quello di indignazione. L’indignazione è spesso un paravento che impedisce di ragionare in modo razionale. Il grande economista francese Jean Jaque Laffont, amico e collega del nostro autore, scomparso prematuramente nel 2004, nel 1999 presentò uno studio sulle tappe da realizzare per modernizzare lo Stato francese al Consiglio di Analisi Economica, un organismo indipendente creato dall’allora primo ministro Lionel Jospin. Il rapporto fu aspramente criticato dalla platea fatta di uomini politici, alti funzionari e accademici. Il punto di Laffont era che la riforma doveva essere disegnata pensando che gli uomini politici e i funzionari rispondono agli incentivi esattamente come gli uomini di affari e i capi di impresa. L’indignazione dei presenti nasceva dall’avversione all’idea che una funzione nobile ed alta come la politica potesse da un punto di vista motivazionale essere considerata alla stregua di qualunque operazione di mercato. Ma l’indignazione in questo caso serviva ad affermare chiaramente una preferenza a non cambiare le cose, di fatto offuscando la realtà. Se gli incentivi davvero non c’entrassero con la politica, allora in tutti i paesi occidentali non sarebbero state riformate le istituzioni dello Stato creando ad esempio le Autorità indipendenti, dopo aver riconosciuto il profondo conflitto di interessi tra politica e regolazione.

Nel pensiero di Tirole, il concetto della pervasività degli incentivi non significa che tutto sia Mercato. «L’economia - sostiene il nostro autore - ricusa il tutto Mercato così come ricusa il tutto-Stato». Stato e Mercato sono istituzioni complementari, dove lo Stato deve definire le regole e correggere il mercato dove non funziona, in modo che individui spinti dagli incentivi individuali non compiano azioni incompatibili con l’interesse comune.

La politica economica sbaglia quando perde coscienza di dove possano portare regole sbagliate o assenti. Questo è quello che è successo con la crisi finanziaria, dove non si è capito a quale disastro gli incentivi a breve termine che governavano le azioni dei banchieri avrebbero portato. E allo stesso modo fa bene quando usa leve che fondandosi sugli incentivi spingono a comportamenti virtuosi, vedi ad esempio le tasse sulle emissioni di anidride carbonica. In sintesi, ci dice Tirole, non tutto è mercato ma molto funziona come un mercato. Affermarlo e capirlo è il modo migliore per far sì che il mercato possa davvero funzionare come strumento del bene comune.

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