Incoraggiamo l’Erasmus d’Italia per il bene dei nostri studenti
Una risposta costruttiva al rischio della desertificazione universitaria, soprattutto quella del Sud
di Lucio D'Alessandro*
3' di lettura
Fatta l’Europa, con il lungo processo di integrazione innescato dalle macerie della Seconda guerra mondiale, alla necessità conseguente di «fare gli europei» ha contribuito soprattutto la “generazione Erasmus”. Attraverso la mobilità tra le università del continente immaginata dalla pedagogista italiana Sofia Corradi, milioni di giovani hanno prima sviluppato e poi trasferito ai territori di appartenenza un forte senso di identità nei confronti dell’Unione, fornendo un contributo decisivo alla costruzione di una cittadinanza attiva europea. Il tema della cittadinanza intesa come un valore, poiché implica il radicamento, il senso della storia e il senso del sé, torna a essere essenziale proprio nel momento in cui più rischia di diluirsi in un mondo che si presenta come privo di centro, sia per l’irrilevanza dello spazio fisico in una società globalizzata e iper-collegata, sia per la costruzione di nuove comunità virtuali.
In questa prospettiva, pare allora assai fondato il progetto di un “Erasmus nazionale”, che incentivi la mobilità universitaria interna al Paese.
È sempre bene ricordare che nei più accreditati ranking, l’Italia supera tutti per numero di istituzioni universitarie tra le prime mille. Quando si commenta l’assenza dei nostri Atenei dai primissimi posti delle classifiche internazionali, si dovrebbe riflettere su questo aspetto: la nostra tradizione formativa ha una struttura non piramidale (con poche e costose università al vertice, in un tessuto per la maggior parte modesto), ma orizzontale, con una qualità media molto alta. Perché non mettere a sistema questo diffuso e solido sistema di competenze, consentendo agli studenti di trascorrere un periodo della loro formazione in un’altra università del Paese?
Un “Erasmus nazionale” potrebbe costituirsi anche come risposta costruttiva al rischio della desertificazione universitaria, che nei prossimi decenni colpirà soprattutto le università del Mezzogiorno. Si tratta di una declinazione tra le meno note, eppure tra le più allarmanti, del divario tra Nord e Sud. L’emorragia di giovani dalle Università meridionali verso quelle del Settentrione si spiega, certo, con le differenti prospettive che un più sviluppato contesto socio-economico può offrire, ma vi è un altro e decisivo elemento da tenere in considerazione: quello che in sociologia si definisce col termine Matthew effect, effetto San Matteo, che conduce le disuguaglianze ad aumentare nel tempo perché le nuove risorse che si rendono disponibili vengono ripartite fra i partecipanti in proporzione a quanto hanno già. Un esempio tra i molti è quello dell’edilizia residenziale universitaria, crescente in ragione delle risorse dei co-finanziatori pubblici e privati nei territori già prosperi, i quali si arricchiscono di nuovo capitale umano attratto dalla disponibilità residenziale, che a sua volta si incrementa nuovamente.
La Conferenza dei Rettori delle Università italiane valuterà con attenzione una progettualità seria di mobilità interna tra Atenei capace non solo di salvaguardare l’offerta formativa nazionale, ma di arricchire i percorsi formativi dei laureati. È stata resa possibile anche in Italia, da questo anno accademico 2022-2023, la contemporanea iscrizione a due corsi di istruzione superiore: perché non accompagnare questa riforma con la possibilità di accedere, per un periodo della propria formazione e con apposite e funzionali convenzioni tra Atenei, ai tanti diversi percorsi di eccellenza che da Nord a Sud caratterizzano aule, laboratori, gruppi di ricerca del nostro sistema universitario?
Tocca alle Università e ai loro Rettori dare l’esempio della necessità non più derogabile di fare sistema. Anche a una nuova generazione dell’“Erasmus nazionale” si potrebbe infatti applicare il motto dell’Erasmus europeo: «Apre
le menti, cambia le vite».
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