Incostituzionale la legge incomprensibile, crea un’incertezza intollerabile
Il cittadino ha diritto ad avere leggi chiare per non rischiare la disparità di trattamento che può derivare da interpretazioni diverse
di Patrizia Maciocchi
I punti chiave
4' di lettura
Le leggi “irrimediabilmente oscure”, che determinano una “intollerabile incertezza nella loro applicazione concreta”, sono in contrasto con il principio di ragionevolezza fondato sull’articolo 3 della Costituzione.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n.110 (redattore Francesco Viganò) passa un colpo di spugna che, nello specifico riguarda una disposizione in materia edilizia contenuta in una legge della Regione Molise, ma va considerato estensibile a tutte le norme che si contraddistinguono per essere scritte male. Una scarsa chiarezza che si traduce nella possibilità di interpretazioni diverse, entrando così in rotta di collisione con il principio di uguaglianza dei cittadini.
La norma bocciata
La norma, finita nel mirino dei giudici, stabiliva l’ammissibilità di non meglio precisati “interventi” all’interno di “fasce di rispetto” contenute nelle “aree di piano”, senza precisare a quali piani facesse riferimento. L’ammissibilità di tali interventi, d’altra parte, era prevista «previa V.A. per il tematismo che ha prodotto la fascia di rispetto»: espressione che la Corte bolla come incomprensibile. Del resto la stessa Regione aveva dato prova di una certa confusione nella lettura, assegnando all’acronimo “V.A.” due significati diversi (“valutazione ambientale” e “verifica di ammissibilità”) nelle sue memorie difensive. Infine, la disposizione bocciata non si inseriva in alcuna legge preesistente, restando per così dire “sospesa nel vuoto”: ciò che rendeva impossibile lo stesso tentativo di interpretare i suoi requisiti alla luce dello specifico contesto normativo di riferimento. Una disposizione «dal significato così radicalmente inintelligibile» da porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza.
I precedenti
Il giudice delle leggi ricorda che, in materia penale, la Corte « esercita da tempo un controllo sui requisiti minimi di chiarezza e precisione che debbono possedere le norme incriminatrici, in forza – in particolare – del principio di legalità e tassatività». Già nella sentenza n. 96 del 1981 la Consulta ha considerato costituzionalmente illegittima la disposizione incriminatrice del plagio (articolo 603 del codice penale), che vietava di «sottopo[rre] una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione». Una situazione ritenuta del tutto oscura nei suoi contorni, e per tale ragione «non verificabile nella sua effettuazione e nel suo risultato non essendo né individuabili né accertabili le attività che potrebbero concretamente esplicarsi per ridurre una persona in totale stato di soggezione». La Corte costituzionale ha affermato che «vi sono requisiti minimi di riconoscibilità e di intellegibilità del precetto penale – che rappresentano anche, peraltro, requisiti minimi di razionalità dell’azione legislativa – in difetto dei quali la libertà e la sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate».
La necessità di un rigore non solo nel penale
Anche gli errori materiali nella redazione di un testo legislativo si traducono per i cittadini in una vera e propria insidia «idonea ad impedirgli la comprensione del precetto penale, o, quanto meno, a fuorviarlo». La Corte ripercorre i casi in cui le leggi non mettevano i destinatari nella condizione di capire quale fosse il comportamento che doveva assumere. Precedenti, anche relativi a leggi regionali, utili alla Consulta per ricordare l’esigenza di rispetto di standard minimi di intelligibilità del significato delle proposizioni normative, e conseguentemente di ragionevole prevedibilità della loro applicazione. Un rigore che certo si impone maggiormente nella materia penale, dove è in gioco la libertà personale, «nonché più in generale allorché la legge conferisca all’autorità pubblica il potere di limitare i suoi diritti fondamentali, come nella materia delle misure di prevenzione». Ma sarebbe un errore - avverte il giudice delle leggi - pensare «che tale esigenza non sussista affatto rispetto alle norme che regolano la generalità dei rapporti tra la pubblica amministrazione e i cittadini, ovvero i rapporti reciproci tra questi ultimi».
Il legittimo affidamento del cittadino in una legge chiara
Anche in questi ambiti, infatti, «ciascun consociato ha un’ovvia aspettativa a che la legge definisca ex ante, e in maniera ragionevolmente affidabile, i limiti entro i quali i suoi diritti e interessi legittimi potranno trovare tutela, sì da poter compiere su quelle basi le proprie libere scelte d’azione». Una norma radicalmente oscura, d’altra parte - si legge nella sentenza - vincola in maniera soltanto apparente il potere amministrativo e giudiziario, in violazione del principio di legalità e della stessa separazione dei poteri. E crea inevitabilmente le condizioni per un’applicazione diseguale della legge, in violazione di quel principio di parità di trattamento tra i cittadini, che è il cuore della garanzia consacrata nell’articolo 3 della Carta. Certo il legislatore, vista la complessità di alcune materie, deve poter utilizzare concetti tecnici o di difficile comprensione per chi non possieda speciali competenze. Tuttavia ci sono casi in cui «nonostante ogni sforzo interpretativo, compiuto sulla base di tutti i comuni canoni ermeneutici», il significato della norma resta irrimediabilmente oscuro. La Consulta ha sottolineato che anche in Francia come in Germania, le leggi incomprensibili sono da tempo considerate costituzionalmente illegittime, in quanto in contrasto con gli standard minimi di legalità propri di uno Stato di diritto. Nello specifico la legge impugnata dal Governo non era in grado di fornire «alcun affidabile criterio guida alla pubblica amministrazione nella valutazione se assentire o meno un dato intervento richiesto dal privato». Per il privato sarebbe dunque stato arduo «lo stesso esercizio del proprio diritto di difesa in giudizio contro l’eventuale provvedimento negativo della pubblica amministrazione, proprio in ragione dell’indeterminatezza dei presupposti della legge che dovrebbe assicurargli tutela contro l’uso arbitrario della discrezionalità amministrativa».
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