A Wall Street è iniziata (forse) la svolta etica
di Andrea Goldstein
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Sonni agitati per gli eredi intellettuali di Milton Friedman. Il nuovo decalogo di Business Roundtable fissa come finalità dell’azienda la creazione di valore per tutti gli stakeholder.
L’associazione, che riunisce circa 200 ceo con un fatturato complessivo di oltre 7 triliardi di dollari, fissa come finalità dell’azienda la creazione di valore per tutti gli stakeholder - azionisti, dipendenti, clienti, fornitori e la società nel suo complesso - e abbandona il mantra della massimizzazione dei soli profitti.
Può apparire una modesta novità per chi ha studiato sui testi di Gino Zappa e Carlo Masini. La scuola novecentesca di economia aziendale pone al centro i nessi tra stakeholder e il coordinamento reso possibile dall’attivazione di nozioni come solidarietà, altruismo o responsabilità. Non c’era bisogno degli americani, insomma, per ricordare che dignità e rispetto per chi lavora sono altrettanto importanti che l’Ebitda (e magari anche più). Ma sostenerlo equivale a gettare alle ortiche il dogma del grande economista di Chicago, espresso nel 1970, secondo cui la responsabilità sociale dell’impresa consiste nell’accrescere i propri profitti: quando «i businessmen credono di stare difendendo il libero mercato perché declamano che l’impresa non si preoccupa “solamente” dei profitti ma sta promuovendo finalità “sociali” virtuose […] in realtà stanno predicando una forma pura di socialismo».
Al vertice della Roundtable, molto influente a Washington, siede Jamie Dimon di JPMorgan Chase, che negli ultimi anni ha criticato l’enfasi sulla creazione di valore per gli azionisti come troppo ristretta e un ostacolo alla capacità del management di perseguire obiettivi di lungo periodo. Lo ha fatto sia nella lettera annuale agli azionisti, sia con interventi sulla stampa, come quello del 2016 con Warren Buffett e Laurence Fink di BlackRock in cui si impegnavano a seguire una serie di principi generali di senso comune - per esempio evitare il ricorso alle azioni con diritti speciali, oppure favorire la sostituzione degli amministratori inadeguati - per alleggerire le pressioni corto-termiste.
Si può trovare illuminato un banchiere che, pur avendo ricevuto nel 2018 un compenso pari a 662 volte il salario mediano di un lavoratore americano, critica il sistema - oppure considerare ipocrita chi sputa nel piatto in cui mangia e che si guarda bene dal volere restituire. Ma in ogni caso occorre riconoscere che non si tratta di questioni metafisiche, anzi. Dalla definizione della finalità aziendale derivano le risposte pratiche a scelte come il livello delle remunerazioni di lavoratori e manager, la valutazione dei rischi ambientali, la destinazione dei guadagni al riacquisto di azioni proprie piuttosto che per investimenti produttivi, o la gestione dei rapporti con gli azionisti.
Questa attenzione alle finalità ultime dell’azienda, e quindi per estensione del settore privato, avviene in un momento storico in cui le preferenze politiche sembrano biforcarsi. Da un lato le tesi di Dimon hanno trovato orecchie attente nella pre-candidata democratica Elizabeth Warren, che da anni sostiene che il primato del rendimento del capitale investito è alla base dell’aumento delle diseguaglianze, tanto da aver presentato una proposta di legge per imporre agli amministratori di agire nell’interesse degli stakeholder e non solo degli azionisti. Sui mercati sono poi sempre più numerosi gli operatori che al momento di investire considerano la performance ambientale, sociale e di governance delle società. Dall’altro i leader populisti di destra come Donald Trump o Jair Bolsonaro, il cui elettorato corrisponde in gran parte ai perdenti della globalizzazione che è a sua volta strettamente collegato al trionfo del modello di capitalismo post-thatcheriano, sono invece in prima linea nel sostenere che le aziende devono poter massimizzare i profitti sottostando al minor numero possibile di regole, in particolare ambientali. E, sui mercati, si muovono con crescente disinvoltura fondi attivisti che al management chiedono, con le buone o con le cattive, di concentrarsi sulla bottom line al posto di perdere tempo con obiettivi tanto ambiziosi quanto difficili da quantificare e monitorare.
Questo paradosso invita allo scetticismo a proposito delle possibilità di trasformare i proclami della Business Roundtable in misure precise. Dietro la patina apparentemente rigorosa e oggettiva dei criteri contabili per la redazione del bilancio si celano aspre lotte politiche. Esiste anche il rischio che l’entusiasmo con cui i grandi nomi del capitalismo americano abbracciano la lotta contro il cambiamento climatico e per la crescita inclusiva non sia altro che un diversivo retorico per rinviare sine die riforme della fiscalità e della regolamentazione. E tagliare le emissioni, rivalorizzare gli stipendi o considerare veramente l’impatto su una comunità della chiusura di una fabbrica sono tutti obiettivi complessi che richiedono più che vaghe dichiarazioni d’intenti. Ma dato che “se hace camino al andar”, da qualche parte bisogna cominciare e il documento della Business Roundtable a questo può servire.
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