Religione

Inquadrare brezze celesti

di Laura Leonelli

, Monika Bulaj, «Ritorno dalla preghiera all’alba», Etiopia

4' di lettura

Da ragazza, ma anche adesso tanto è agile e forte, Monika Bulaj amava salire sui trampoli ed entrare in scena, funambola dai lunghi capelli biondi, camminando a qualche metro da terra e a qualche centimetro in più dall’immensità del cielo. E deve essere stata questa altezza innaturale, questo sporgersi al di là dei limiti guardando oltre ogni possibile muro, a suggerirle negli anni un amore sconfinato, ovvero senza confini, per i luoghi dove la brezza celeste alleggerisce il passo pesante degli uomini. Nata in Polonia negli anni ’60, in un paese dove il cattolicesimo è militante e dove in epoca sovietica «la mancanza di spiritualità ne ha affinato il desiderio», Monika Bulaj ha dedicato ogni energia a rintracciare, fotografare e raccontare i luoghi dell’incontro tra le religioni. Luoghi millenari, divisi dalla storia grande e ricuciti dal perseveranza minuta degli uomini, luoghi piccoli, segreti, sopravvissuti a ogni violenza, a volte circondati dai campi di grano della Bucovina, a volte isolati dalla sporcizia intoccabile di un quartiere del Cairo, a volte ancora immersi nel fango di Haiti o nella sabbia di un monastero siriano. Luoghi dove il soffio del Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani sfoglia da millenni le pagine del Libro, confondendo e contagiando gioiosamente le parole, quelle stesse parole che i fondamentalisti di tutti i secoli vorrebbero invece esclusive, recintate, tagliate a sangue dal fanatismo. Da questa grande camera degli specchi, da questo mare comune a ogni sponda del Mediterraneo e oltre nell’esilio, da questo mondo oggi in frantumi, Monika, studiosa, fotografa e scrittrice, è riemersa portando con sé anche lei un libro, Where Gods whisper, appena pubblicato da Contrasto e “in scena” il prossimo 9 settembre, alle 18.30, al Teatro Bibiena di Mantova nell’ambito del Festival della Letteratura.

Perché in scena e perché a teatro? Perché questo libro, che raccoglie sedici anni di viaggi dalle Russie al Medio Oriente, dall’Asia Centrale all’America Latina, narra la storia e le infinite rappresentazioni, su ogni palcoscenico del mondo, della recita più sublime mai interpretata dall’uomo, il rito sacro, sia esso preghiera, estasi, richiesta di guarigione e ringraziamento, sia esso pellegrinaggio o sguardo smarrito sul mistero della vita e della morte, sia esso ancora contatto, silenzioso o preso nel turbine della danza dionisiaca, con le forze oscure, con l’animale, con il male necessario al bene che risiede in ognuno di noi. E come in ogni rappresentazione, anche il teatro della fede richiede i suoi gesti eclatanti, i suoi oggetti, i suoi costumi. E può succedere, come ripetono queste belle immagini, scolpite nella luce e trepidanti nel mosso, che i fedeli, non importa di quale religione, si prestino gli abiti di scena e a vicenda si porgano le battute. Il copione del resto è molto simile.

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Lo ricorda bene Monika dedicando un capitolo al tema del velo e allineando, come se fossero tagliati dallo stesso rotolo di stoffa, il velo delle danze di Salomè, quello delle spose berbere dell’Atlante, quasi una Veronica che attenua la bellezza delle future mogli, e ancora il velo grande come una montagna che protegge l’icona di Pokrov, in una piccola chiesa bizantina di Costantinopoli, e poi il velo che esclude le donne dagli sguardi maschili in una moschea di Teheran, e ancora il velo che nasconde gli Incappucciati di Guardia Sanframondi, vicino a Napoli, e persino il velo «fotosensibile della memoria degli ortodossi, il mandylion, con il volto di Cristo»; e infine il velo di Maria e delle donne Tuareg che non cela nulla, e invece esalta l’intensità degli occhi e la purezza dell’incarnato.

Ma come il vento che spira tra queste immagini e agita le vesti nella polvere di antiche città, così il vento di Dio attraversa il liuto delle corde vocali e diventa la babele linguistica e spirituale dei cristiani di Qaraqosh, curdi iracheni che pregano in arabo e parlano in aramaico. E quando il canto si trasforma in grido, allora siamo in Marocco, intorno al sarcofago di Ibn Ben Aissa, il santo, nell’anniversario della nascita del Profeta Maometto. Un altro grido ed è quello di una capra nera, fatta a pezzi e offerta in sacrificio, e nell’odore di sangue torna a vivere il ricordo di Dioniso.

Mito e storia si avvicinano, ed è il vero miracolo, e così il ricordo di un tempo di pace sopravvive all’orrore della guerra. Cambio di scena e Monika Bulaj, che viaggia sola senza Ong né convogli militari, che è profondamente religiosa perché sempre in cammino, giunge in Kosovo, a Gjakova, centro del traffico delle prostitute dell’Est. E lì, «proprio nella tana del lupo», dietro una finestra, dietro un pezzo di tessuto verde e il ricamo d’oro di una calligrafia, ascolta la bellezza di un canto sufi, il canto del misticismo musulmano, «odiato dai fondamentalisti e ignorato dall'Occidente». «Il nostro sogno è officiare davanti a papa Francesco», confessa l’uomo che indossa il copricapo da sceicco. Una luce nel buio dell’intolleranza. Una spinta a proseguire il pellegrinaggio e a passi lunghi, quelli che permettono solo i trampoli, Monika giunge in Etiopia, all’alba, quando i fedeli dopo una notte di preghiera nell’oscurità delle chiese scavate nella roccia, come nel ventre della madre terra, tornano a casa. Piccole fiammelle di luce bianca che punteggiano il paesaggio. Forse l’autrice ha fermato una di queste donne e, discreta, «sapendo sempre qual è il mio posto», le accompagnate chiacchierando lungo la strada. Un altro incontro da aggiungere a un lunghissimo rosario di ritratti, valore autentico di questo libro. Perché al di là di ogni religione, al di là di ogni dio, è l’incontro con l’altro, disarmati e onesti, lo spettacolo più alto che l’uomo può offrire di sé.

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