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Interessi BTP al top dal 2012, lo spread tocca quota 200: bufera sui titoli di Stato italiani

In asta i tassi decennali salgono di 68 centesimi rispetto all’ultima emissione. Sul secondario il BTp arriva a sfiorare il 5%:livello più elevato rispetto al 4,5% pagato dai bond greci

di Vito Lops

3' di lettura

Brusca impennata per i rendimenti dei BTp a 5 e 10 anni assegnati ieri in asta dal Tesoro che, sul mercato primario, tornano a toccare livelli che non si vedevano dal 2012. Nel dettaglio, il Tesoro ha raccolto 5 miliardi dal titolo a 5 anni, a fronte di una domanda di 6,8 miliardi, fissando un tasso del 4,41%, 62 punti base più in alto rispetto alla precedente analoga emissione. Sulla scadenza a 10 anni raccolti 3 miliardi (a fronte di una domanda per 4,26 miliardi) a un tasso pari al 4,93% (68 punti base più su dell’ultima analoga emissione). Si tratta di rendimenti che non si vedevano da 11 anni, precisamente dall’ottobre del 2012. Inoltre il Tesoro ha collocato anche la 19ma tranche del CcTeu scadenza 2026 per 750 milioni (richieste per 1,501 milioni) spuntando un rendimento lordo del 4,12% e la 14ma tranche del CcTeu scadenza 2030 per 750 milioni (richieste per 1,495 miliardi) con un rendimento del 4,89%. Nel complesso Via XX Settembre ha raccolto 9,5 miliardi ma, come visto, congelando tassi decisamente più elevati rispetto al recente passato.

Del resto, il timing di questa tornata di collocamenti è arrivato nel peggiore momento di questo 2023. Perché sul mercato secondario (i cui tassi poi si riflettono inevitabilmente su quelli del mercato primario) i rendimenti stanno salendo in tutto il mondo, soprattutto sulla parte lunga della curva. Nel corso dell’ultima seduta il decennale italiano è arrivato a sfiorare il 5%, superando i massimi di periodo toccati ad ottobre 2022 e rivedendo, appunto, una soglia che non si vedeva da più di 10 anni.

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In questo momento l’Italia sta pagando i tassi più alti fra tutti i Paesi dell’Eurozona per sostenere il macigno del suo debito, che a luglio ha raggiunto la cifra record di 2.859 miliardi di euro, circa 1,5 volte il Prodotto interno lordo. Persino la Grecia, che esibisce un rating inferiore rispetto all’Italia (BB+ contro la “tripla B” italiana) in questo momento si finanzia a tassi più bassi (il decennale ellenico è al 4,5%).

L’Italia non è però l’unico Paese ad essere colpito dalle vendite sul mercato obbligazionario ma, in proporzione ai vicini europei, l’effetto negli ultimi giorni è più ampio. Tanto che lo spread con il Bund tedesco (anch’esso venduto con il rendimento del decennale che a settembre è salito dal 2,4% al 2,93% e pare puntare la soglia psicologica del 3%) si è ampliato nell’ultimo mese da 160 a 200 punti base, come non accadeva dallo scorso marzo.

Non aiutano le discussioni europee sul deficit. Nella Nadef, il documento di programmazione economica approvato dal Consiglio dei ministri, è stato programmato un deficit al 4,3% per il 2024 mentre quello per il 2023 è salito al 5,3%. A questo punto gli investitori possono segnarsi il 20 ottobre, il 10 e il 17 novembre come date “market mover” per i BTp dato che i conti pubblici saranno al vaglio del giudizio delle agenzie di rating. Nell’ordine prima Standard and Poor’s, poi Fitch e in ultima istanza Moody’s. Occhi puntati in particolare su quest’ultima (attesa per il 17 novembre e che al momento ha assegnato un rating all’Italia Baa3, appena un gradino sopra il livello “spazzatura”) dato che ha un outlook “negativo”.

Il conteso globale poi non aiuta. Quest’ultima ondata di rialzo dei bond è partita negli Stati Uniti con i rendimenti a 10 anni che sono decollati fino al 4,7% (in primavera erano al 3,2%) con un’accelerazione nelle ultime sedute dopo che il 20 settembre il governatore della Federal Reserve Jerome Powell ha dichiarato che i tassi dovrebbero restare alti a lungo. Parole che hanno spinto il mercato obbligazionario sa rivedere l’ipotesi che nel 2024 la banca centrale possa iniziare a tagliare il costo del denaro che attualmente oscilla tra il 5,25% e il 5,5%. Lo scenario “high for longer” è alimentato anche dal rialzo del prezzo del petrolio (con la qualità Wti in area 94 dollari al barile) che presenta una forte correlazione diretta con i rendimenti statunitensi. La triade “dollaro-petrolio-rendimenti Usa” sta contagiando anche i tassi nell’Eurozona, costretta a sua volta ad importare più inflazione a causa del concomitante rafforzamento del petrolio e del biglietto verde. Di conseguenza lo scenario “tassi alti per lungo tempo” sta rimbalzando anche sull’Eurozona, che presenta in questo momento una crescita economica più fragile rispetto agli Stati Uniti a fronte di un livello di inflazione ugualmente “appiccicoso”. Gli investitori non possono escludere a questo punto il pericolo che si palesi un quadro macroeconomico di stagflazione (inflazione resiliente nonostante la crescita economia risulti stagnante). Tanto negli Stati Uniti ma soprattutto nei Paesi più indebitati d’Europa.

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