Interferenze illecite nella vita privata per il capo voyeur
di Silvia Marzialetti
2' di lettura
Interferenze illecite nella vita privata, con l’aggravante dell’abuso di relazioni d’ufficio, per il titolare di uno studio professionale che spiava le proprie dipendenti in bagno.
Diabolico lo stratagemma ideato dall’imputato di Catania che, per poter riprendere le donne dell'ufficio nei momenti più intimi, si era procurato una penna provvista di micro-videocamera.
Condannato dalla Corte di appello di Messina per il reato previsto dall'articolo 615-bis del Codice penale, il titolare voyer ha presentato in Cassazione un ricorso ritenuto inammissibile: con la sentenza 22695 presentata ieri (10 maggio), la Cassazione ha smontato pezzo per pezzo i motivi della difesa, confermando la sentenza d'appello.
La strategia difensiva dell'imputato si era concentrata, in particolare, su presunte manipolazioni della spy-cam da parte delle persone offese, che - a suo dire - avrebbero consegnato il dispositivo alla polizia soltanto dopo averlo azionato, inavvertitamente. Le registrazioni prodotte dal gesto maldestro avrebbero compromesso la “genuinità” della prova.
Non la vedono così i giudici i che, citando la Convenzione di Budapest del 2001, ricordano come la “genuinità” originaria dell'elemento probatorio sia rimesso esclusivamente al merito della sua valutazione. Vizi di motivazione che - ricorda la sentenza - il ricorrente non ha dedotto.
Nessuna chance neanche per il tentativo di screditare le persone offese. A detta del titolare, infatti, queste ultime avrebbero mentito, perchè in concorrenza con lui, visto che si apprestavano ad avviare uno studio professionale analogo a quello in cui lavoravano. L'intento concorrenziale sarebbe però emerso soltanto dopo la scoperta della microcamera.
La Cassazione considera inoltre erronea l’affermazione secondo cui la sentenza impugnata non avrebbe tenuto in considerazione lo stato di “incensuratezza” ed il buon inserimento sociale dell'imputato, così come capzioso risulta il riferimento all’errata formulazione del capo di imputazione in ordine al numero delle persone offese coinvolte. Secondo i giudici, infatti, si ritengono offese in senso giuridico anche le dipendenti non direttamente riprese dalla telecamera, ma comunque potenzialmente spiabili.
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