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Internazionalizzazione e made in Italy sono il futuro del calcio italiano

Il calcio italiano sta affrontando un periodo di grande riflessione. In questa ultima finestra di mercato invernale, chiusa il 31 gennaio, i club della Serie A hanno speso 31 milioni di euro, il dato più basso degli ultimi 17 anni.

di Dino Ruta

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4' di lettura

Il calcio italiano sta affrontando un periodo di grande riflessione. In questa ultima finestra di mercato invernale, chiusa il 31 gennaio, i club della Serie A hanno speso 31 milioni di euro, il dato più basso degli ultimi 17 anni. Stessa cifra anche per LaLiga spagnola, 67 milioni per la Bundesliga tedesca e 133 milioni per la Ligue 1 francese. Il dato della Premier League inglese, pari a 829 milioni di euro, sottolinea uno strapotere economico che la rende la lega di calcio più importante al mondo.

In base agli ultimi contratti media sottoscritti, la Premier League fattura 4.080 milioni di euro dalla vendita dei diritti televisivi (2.097 dai diritti internazionali e 1.983 da quelli domestici), mentre la Lega Serie A si classifica solo dopo LaLiga e la Bundesliga, e prima della Ligue 1, con un valore pari a 1.188 milioni (240 diritti internazionali e 928 diritti domestici). Il distacco è significativo anche con LaLiga che raggiunge 1.770 milioni (780 diritti internazionali e 990 domestici). La Premier offre un prodotto internazionale e insieme alla Champions League sono i due tornei a cui nessun broadcaster vorrebbe rinunciare.

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I club inglesi sono in grado di fare offerte significative per i diritti alle prestazioni dei giocatori, come nella recente vendita di Hamed Traorè dal Sassuolo (Serie A) al Bournemouth (Premier) per 30 milioni di euro, cifra significativa dati i tempi, ma non per il calcio inglese.

Le ragioni di questo declino del calcio italiano sono tante e vanno ricercate nel passato, ad esempio nella mancanza di società di telecomunicazione tra i propri sostenitori, nella pirateria, nella mancata disponibilità dei diritti di archivio nelle licenze e in generale nella mancanza di una visione di lungo termine. Ai successi degli anni 90 e Duemila non è seguito un piano industriale di crescita della nostra Lega.

L’ultima Champions League è dell’Inter nel 2010, l’ultimo pallone d’oro nel nostro campionato è stato Kakà al Milan nel 2007. Per troppi anni le priorità sono state il campo, i giocatori e l’ossessione di un risultato sportivo positivo. Mentre la Premier investiva per un prodotto audio-visivo di profilo globale, la Serie A rinviava gli investimenti negli stadi di proprietà e la costruzione di una Lega forte.

Cosa può fare oggi il calcio italiano per recuperare competitività?

Da un punto di vista economico l’unica risposta è nell’internazionalizzazione del calcio italiano, come stanno facendo la Premier e LaLiga, anche in virtù delle politiche Fifa rivolte all’espansione del calcio nella cosiddetta Mena Region (Medio Oriente e Nord Africa). Sul principio sono quasi tutti d’accordo, ma le alternative di azioni sono diverse.

Gestire un club non è come gestire una Lega, sono modelli di business completamente diversi. Da sempre però le principali decisioni della Serie A sono prese dai proprietari e dai dirigenti dei club, come in molte altre leghe europee. I nuovi vertici della Serie A, arrivati nel 2019, hanno dato un impulso diverso alla Lega puntando sulla tecnologia e sulle piattaforme Over-the-top (Ott) per tenere il mercato nazionale pressoché invariato, circa un miliardo di euro con Dazn e Sky, e per iniziare un percorso di rinnovamento alla ricerca di nuovi ricavi. Ben vengano gli investitori stranieri, ma occorre lavorare per far sì che il nostro prodotto sia vendibile all’estero e che curiosi e appassionati siano felici di associarsi ai nostri brand, club e calciatori. Occorrono poche idee, ma chiare.

Esiste un’evidente necessità di scindere la parte sportiva (regolamenti, calendario, etc.), dalla parte media e commerciale (diritti, partnership, etc.) dove è necessaria una Lega autonoma di operare soprattutto in ambito internazionale. Sono le Leghe che devono esportare l’intero prodotto, non i singoli club. L’Nba è il modello da seguire, ha creato grandi accordi commerciali in Asia e in Africa, e adesso sta entrando anche in Medio Oriente.

Il mondo sta evolvendo velocemente. Non è così scontato che la Premier possa continuare questa crescita al rialzo. Per le nuove generazioni è necessario offrire contenuti valoriali e sostenibili, con le migliori esperienze di shopping online e di persona, un modello centrato sui tifosi e non solo sui calciatori.

Vi è spazio per un modello diverso, dove il concetto di Calcio made in Italy può diventare un brand: il prodotto più di moda, più digitalizzato e più di intrattenimento al mondo, con un’identità valoriale ben chiara e frutto della storia. Occorre generare curiosità con iniziative creative e di forte impatto sulle comunità internazionali: academy della Serie A, ex calciatori, musei esperienziali, serie TV, abbigliamento di stile italiano e così via, per poi monetizzare nel medio-lungo termine in diritti media e partnership. L’unicità non sono più i club, ma l’impatto che il calcio italiano è in grado di esercitare nelle comunità internazionali.

Certamente servono investimenti per rendere il calcio bello come un brand di alta moda, e ben raccontato come un film italiano in grado di vincere l’Oscar. Si può immaginare una società ad hoc costituita per la valorizzazione finanziaria del calcio italiano all’estero, guidata dalla Lega, con asset di valore e investitori istituzionali e professionali, anche di profilo internazionale se opportuno. Va esportato il prodotto calcio e l’Italia nel suo insieme con un’organizzazione in grado di incorporare anche altre industrie: tecnologia, design, moda, cinema, arte ed education, tra le tante, con l’obiettivo ultimo di creare una piattaforma di diplomazia internazionale basata sul calcio e finalizzata all’export.

Lo sviluppo del progetto Calcio made in Italy può beneficiare anche dalla strategia Figc di candidarsi come Paese ospitante delle principali manifestazioni calcistiche internazionali, come ad esempio la candidatura già formalizzata per gli Europei 2032, dove siamo in concorrenza con la Turchia e la cui decisione verrà presa in autunno. Ancor più ambiziosa sarebbe stata la presentazione della candidatura con Arabia Saudita ed Egitto (tre differenti continenti e confederazioni calcistiche) ai Mondiali di calcio 2030, che sembra essere sfumata per motivi diplomatici. Avrebbe certamente rappresentato un valido esempio di costruzione di rapporti istituzionali ed economici tra Paesi diversi andando al di là dell’evento stesso, creando le basi per esportare il calcio italiano nel mondo.

Occorre muoverci come un Paese che intende stringere accordi con altri Paesi. Facile a dirsi, difficile da realizzare, ma copiare e inseguire la Premier non ci può portare lontano. Occorre osare, tirare fuori l’estro italiano sapendo che se la palla entrerà non sarà fortuna, ma solo il frutto di duri allenamenti e un sano gioco di squadra, all’italiana.

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