Investimenti e riduzione strutturale del carico fiscale per rilanciare l’economia
Come ricorda il Fmi il cuneo fiscale medio italiano sul lavoro «è di circa il 48% rispetto a una media Ue di circa il 42%».
di Dino Pesole
4' di lettura
Siamo usciti nel 2014 da una delle più gravi crisi economiche degli ultimi decenni, ma l’economia italiana non ha ancora imboccato la strada di una crescita stabile e degna di questo nome, come segnalano da ultimo i dati Istat che evidenziano una pesante battuta d’arresto nel quarto trimestre 2019. L'incremento del Pil atteso per il 2019 (0,2%) e quello in programma per il 2020 (0,6%) non può essere giudicato sufficiente. Se l’economia non cresce, non si creano nuovi posti di lavoro, le aspettative restano ferme e in sostanza si vive in una sorta di lunga sospensione in attesa di tempi migliori.
Occorre una cura shock
In realtà l'economia italiana avrebbe bisogno di un salutare shock basato due pilastri, entrambi diretti a potenziare la domanda interna: una massiccia dose di investimenti pubblici e privati (va colta al volo l’opportunità offerta dal Green new Deal annunciato dalla Commissione europea), una riforma fiscale che punti a ridurre il carico fiscale in modo sensibile e strutturale sul costo del lavoro e sui redditi. In questa direzione va il taglio per 3 miliardi del cuneo fiscale disposto dal Governo a partire dal prossimo luglio. Segnale importante soprattutto a beneficio di quei 4,3 milioni di contribuenti (nella fascia di reddito da 26.600 e 40.000 euro) esclusi dal “bonus Renzi” (80 euro).
Nel complesso ne trarranno vantaggio 16 milioni di italiani e tuttavia, dati gli importi necessariamente limitati, non vi è da attendersi un grande impulso sul versante dei consumi. Come ricorda il Fmi il cuneo fiscale medio italiano sul lavoro «è di circa il 48% rispetto a una media Ue di circa il 42%». Il piano governativo riduce modestamente il cuneo fiscale dello 0,2-0,3% del Pil nel periodo 2020-21. E allora occorre lavorare fin d’ora (anche in vista della predisposizione del Def di metà aprile) per mettere in campo più incisive misure a sostegno della domanda interna che possano dal prossimo anno rendere più “visibile” e percepita la diminuzione del carico fiscale sul lavoro.
Caccia alle coperture
Certo, come sempre, la questione principale attiene alle coperture, e già la prossima manovra partirà con il pesante fardello di 20 miliardi di clausole Iva da disinnescare (l’ulteriore coda delle clausole di salvaguardia che ci trasciniamo da anni), e dunque occorreranno risorse compensative per la manovra fiscale che non potranno che provenire da due versanti: il potenziamento della lotta all’evasione con l’asticella dei maggiori incassi attesi ben oltre i 3,2 miliardi attesi quest’anno, e finalmente la razionalizzazione della spesa corrente, anche mettendo mano al capitolo delle agevolazioni fiscali. Il problema non è tecnico/contabile ma politico, perché evidentemente si tratta di operare scelte che nell’immediato possono anche comportare una perdita di consensi, ma che nel medio periodo certamente produrranno effetti concreti e tangibili. Il tutto naturalmente tenendo ben presente che il ciclo economico internazionale vira verso una netta contrazione delle prospettive di crescita.
L’epidemia cinese pesa sul Pil mondiale
Nel 2019 è stata soprattutto la guerra dei dazi tra Usa e Cina a pesare sul rallentamento dell’economia internazionale. Ora gli effetti dell’epidemia da coronavirus colpiranno con quasi matematica certezza sia l’economia cinese (si ipotizza almeno un punto di Pil che porterebbe la crescita cinese attorno al 5%, il livello più basso degli ultimi decenni), sia l’economia mondiale nel suo complesso, data la stretta interdipendenza delle diverse aeree geopolitiche. Ne subirà le conseguenze anche l’economia italiana? Certamente sì anche se ora sarebbe prematuro evidenziarne l’impatto in termini di minore crescita. Il Pil del 2020, peraltro, è già stato rivisto al ribasso dal Fmi allo 0,5% e la Commissione europea nelle sue prossime previsioni si avvia a fare altrettanto.
Reagire alla bassa produttività
Il problema numero uno dell’economia italiana resta la bassa crescita, che ha a che fare con una produttività sostanzialmente ferma da anni, a causa di una molteplicità di fattori ancora non rimossi, dal peso della burocrazia all’alto livello della pressione fiscale, dal permanere di un alto debito (pari al 135% del Pil) alle resistenze all’apertura al mercato di troppi settori ancora immuni dal vento benefico della concorrenza. Ecco perché occorre una terapia d’urto che eviti al nostro paese il rischio di quella «stagnazione secolare» paventata da molti economisti, e comunque di un periodo prolungato di bassa crescita con effetti sull’intero quadro delle variabili macroeconomiche. Si guardi ad esempio al tema della spesa pensionistica. È del tutto evidente che in un sistema a ripartizione, in cui le pensioni dei pensionati vengono pagate dal contributi dei lavoratori attivi, se la platea degli occupati si contrae (per effetto della bassa crescita) e quella dei pensionati cresce (per effetto dell'allungamento della vita media), il sistema non regge. E dunque occorre agire in fretta, sfruttare la finestra di opportunità offerta da una prolungata e perdurante fase di bassi tassi (grazie alla politica monetaria espansiva della Bce) per mettere in campo interventi e riforme in grado di far virare il ciclo economico verso tassi di sviluppo che sono alla portata del nostro paese, almeno attorno al 2%. In caso contrario, il declino paventato in sede scientifica qualche anno fa sarebbe tristemente inevitabile.
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