Strategie di crescita / 2

Investimenti strutturali per dare un futuro al mondo della ricerca

di Andrea Filippetti

(Adobe Stock)

4' di lettura

Il Pnrr italiano è di gran lunga il più consistente in tutta l’Ue e pari a un terzo dell’ammontare di fondi stanziati. Questo dovrebbe determinare un impatto significativo sulla crescita economica nei prossimi anni, ma non mancheranno difficoltà dovute a colli di bottiglia di varia natura che stanno già emergendo. Basta richiamare cosa accade nel settore delle costruzioni, dove si sono concentrati e sovrapposti una pletora di bonus e incentivi che hanno provocato un aumento repentino dei prezzi e una scarsità di manodopera e materiali.

Siamo di fronte a una dimostrazione plastica della legge della domanda e dell’offerta. Un aumento repentino della domanda determina un incremento dei prezzi dovuto alla scarsità del bene domandato dal lato dell’offerta, fintanto che quest’ultima non si adegua attraverso un aumento dei beni domandati per via di una maggiore produzione, o attraverso maggiori importazioni. Il problema si acuisce quando il “bene” domandato è il lavoro, in particolare nel caso di lavoro specializzato. Quest’ultimo, infatti, non si crea rapidamente, né si importa facilmente. L’offerta di lavoro specializzato è il frutto di investimenti di lungo periodo in istruzione e formazione professionale. Se parliamo di ricercatori la questione si complica ulteriormente. Un incremento rapido della “domanda” rischia di creare seri problemi poiché i ricercatori non si generano in pochi mesi. È molto probabile che ciò accadrà quando sul “mercato del lavoro della ricerca” si riverserà un quantitativo di risorse finanziarie straordinario proveniente dal Pnrr.

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La terza edizione della “Relazione della Ricerca e l’Innovazione in Italia”, presentata il 15 febbraio presso il Consiglio nazionale delle ricerche, illustra chiaramente i due lati del problema. Secondo i ricercatori del Cnr, «complessivamente le risorse destinate all’attività di ricerca e sviluppo previste nel Pnrr ammontano a circa 16,94 miliardi di euro, circa il 7,6% complessivo delle risorse totali stanziate dal Pnrr e dal Fondo complementare». Se ci limitiamo a considerare i bandi già pubblicati o in corso di pubblicazione, che includono i Progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin), gli ecosistemi per l’innovazione, i campioni nazionali di ricerca e sviluppo, le infrastrutture di ricerca e i partenariati estesi, si arriva a una cifra pari a circa 6,7 miliardi di euro. Per farsi un’idea dell’ordine di grandezza, basta considerare che l’ultimo finanziamento alla ricerca, ossia il bando Prin pubblicato nel 2020 e tuttora in fase di finanziamento, è pari a 178 milioni di euro, pari al 2,6% di quanto messo in campo oggi.

Sebbene non tutte le risorse saranno destinate ad assumere nuovo personale, di certo lo sarà una quota rilevante, soprattutto in quelle aree dove l’attività di ricerca si svolge senza l’utilizzo di strumenti e laboratori e la maggior parte del finanziamento è assorbito da personale di ricerca. Cosa accadrà a seguito di un aumento della domanda di ricercatori di quasi 40 volte? Per capirlo occorre guardare all’altro capo del problema, ossia all’offerta di dottorati e ricercatori in Italia. Il Rapporto Cnr mostra che: «L’Italia ha un numero di dottori di ricerca che è pari a solo lo 0,5% della popolazione in età lavorativa; nell’ambito dei Paesi dell’Ocse percentuali più basse si ritrovano solo in Turchia, Lettonia e Messico». Diversa risulta la situazione in Germania (1,4% della popolazione), Francia (0,9%) e Spagna (0,8%), senza scomodare i primi della classe che superano il 2 per cento. Inoltre, non possiamo neppure sperare in un’inversione di tendenza a breve, poiché il Rapporto ci ricorda anche che il nostro «risulta essere il Paese dell’area Ocse con il numero più basso di studenti frequentanti corsi di dottorato, con la sola eccezione di Messico e Cile». Dal 2007 al 2019 il numero di iscritti nei corsi di dottorati è calato da oltre 13mila a meno di 11mila. Le misure del Pnrr per ampliare il numero delle borse di dottorato, pari a 430 milioni di euro, vanno evidentemente nella giusta direzione, ma richiederanno tempo per dispiegare i frutti.

Per formare un ricercatore post-dottorale occorrono dai quattro ai cinque anni, e stiamo parlando di profili di ricerca junior, raramente sufficienti a gestire un progetto di ricerca. È sin troppo facile, a questo punto, azzardare la previsione che nei prossimi mesi nel mondo della ricerca assisteremo a una scarsità di capitale umano che rischia di minare l’efficacia e l’impatto dei finanziamenti. Ci si accorgerà, come accaduto di fronte alla recente emergenza nel campo sanitario, che il disinvestimento strisciante, ma inesorabile, che ha caratterizzato i settori dell’istruzione e della ricerca, alla lunga si paga. Difficilmente c’è modo di sanare di qui a breve la situazione emergenziale che si verrà a determinare. Ma ciò dovrebbe spingere la politica a usare le stesse risorse messe a disposizione dal Pnrr (che sono una tantum) a tornare a investire in istruzione e ricerca in modo strutturale.

L’emergenza sanitaria ha probabilmente contribuito a rinsaldare un legame di fiducia tra la comunità scientifica e l’opinione pubblica che si era affievolito negli ultimi anni. Per far fare al Paese il salto di qualità di cui ha bisogno, non basterà un nudge, una «spinta gentile». Ciò che serve è una Politica della ricerca con la P maiuscola.

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