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Investitori spiazzati da norme generiche e sanzioni pesanti

All’inizio di febbraio è intervenuta l’ennesima legge (l. n. 10/2023) in materia di golden power.

di Luca R. Perfetti

(Yingko - stock.adobe.com)

3' di lettura

All’inizio di febbraio è intervenuta l’ennesima legge (l. n. 10/2023) in materia di golden power.

Presente in quasi tutte le legislazioni dei Paesi ad economia avanzata, intitola il Governo a impedire o porre condizioni agli investimenti stranieri in imprese nazionali che operano in settori strategici o detengono asset altrettanto strategici. La disciplina italiana del 2012, era non solo limitata alle operazioni su asset strategici o le società che li detengono, ma riferita espressamente solo ad alcuni settori specifici e applicabile a operatori estranei all’Unione europea, garantendo un equilibrio tra libera circolazione dei capitali e politica economica nazionale.

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Questa situazione è profondamente mutata con l’emergenza pandemica, che ha complessivamente generato un notevole sistema di norme e poteri emergenziali e derogatori, estendendo una tendenza già ampiamente sperimentata nell’ultimo decennio in altri settori dell’ordinamento. I golden power non hanno fatto eccezione: si è eliminata l’esenzione per gli investitori europei e, anzi, per alcuni tratti la si è estesa anche a quelli nazionali; si è ampliata l’applicazione a interi settori in quanto tali, sostanzialmente considerando strategico qualunque asset o azienda; si è previsto che la dimensione dell’occupazione oltre un certo dato fosse essa stessa un asset strategico; e così via. I dati lo confermano: il numero delle notifiche, sulla base delle relazioni al Parlamento, è cresciuto da 83 nel 2019, a 342 nel 2020, a 496 nel 2021 – manca ancora il dato per il 2022.

Un incremento di circa sei volte in due anni. E pone molte questioni rilevanti.

Anzitutto, l’espansione della rilevanza a fini golden power non deriva solo dal moltiplicarsi delle ipotesi previste dalla legge. Piuttosto, il problema è la formulazione delle norme in modo volutamente generico, che pone un’estrema difficoltà pratica a definire la rilevanza o meno della singola operazione. Poiché la normativa golden power prevede sanzioni notevoli, nell’incertezza l’investitore finirà per notificare. Né la prassi del Governo consente di ridurre l’incertezza, perché ogni decisione fa stato a sé – non foss’altro per via del fatto che le condizioni economiche e di sicurezza cambiano nel tempo, come il rilievo strategico di un’azienda o un settore. Il risultato è quello di un numero molto alto di notifiche con casi molto limitati di esercizio dei poteri.

In secondo luogo, la debolezza di questa legislazione quanto al rispetto dello Stato di diritto, rende quasi impossibile la tutela giurisdizionale, perché nella genericità delle norme, lo stesso giudice ha armi spuntate, che lo divengono ancor di più a fronte dell’affermarsi dell’idea che l’esercizio dei poteri sia attività di alta amministrazione (insindacabile), indirizzo politico legislativo, decisione ad altissima discrezionalità politica.

C’è chi lo configura come strumento di pura politica economica. Tuttavia, si tratterebbe di una politica economica che non si esprime con programmi o controlli (art. 41 Costituzione) che valgono per tutti, ma con decisioni casi singoli, difficilmente compatibile con la Costituzione. Il risultato è che le poche ipotesi di applicazione dei poteri determinano una pura soggezione di chi la subisca, con margini quasi inesistenti di critica razionale.

In terzo luogo, è evidente un fraintendimento. Si parla, infatti, dei golden power come di uno strumento di regolazione del mercato; tuttavia, non c’è un’autorità indipendente di regolazione, non c’è necessariamente un mercato che necessiti di regolazione; le decisioni sono tipicamente amministrative, autorizzazioni o mancate autorizzazioni con esercizio di poteri. È sbagliato, quindi, parlare di regolazione. Piuttosto si è di fronte a norme troppo elastiche, applicazioni che non formano precedenti, notevole magnitudine delle sanzioni, insindacabilità delle decisioni, a un’autorità tipicamente amministrativa (il Governo) che opera in un ambito di pura opportunità.

E, ultimo elemento da tenere presente, il nostro legislatore (come in altri ambiti) ha indicato come direzione dei poteri l’interesse nazionale, restando del tutto ambiguo se questo sia l’interesse dello Stato – e della sua politica economica – ovvero quello del Paese – a che gli asset strategici siano associati a un piano industriale che assicuri il presidio dei beni (come ambiente, sicurezza, occupazione, etc.) fondamentali per le persone.

Certo è che l’insieme di questi quattro elementi ha espanso enormemente uno strumento che oggettivamente consente una vigilanza economica attiva dello Stato molto distante da quella cui ci eravamo abituati da un quarto di secolo.

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