«Io, mio padre, i suoi amici e nemici»
di Paolo Bricco e Edoardo De Biasi
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A 10 anni dalla morte di Vincenzo Maranghi, successore di Enrico Cuccia in Mediobanca, il figlio Piero racconta suo padre, quella Mediobanca e che cosa è diventata l’Italia.
«Lo sguardo del custode dietro al vetro, quando entro in Mediobanca, non ha prezzo. Il saluto dei commessi. I vecchi impiegati e funzionari che mi fermano. Hanno tutti quella espressione negli occhi. Il ricordo e l’eredità di mio padre, Vincenzo Maranghi, sono per me un dono senza tempo».
Piero Maranghi, 48 anni, assomiglia a suo padre, allievo prediletto e erede unico di Enrico Cuccia, una delle personalità che hanno segnato il Novecento italiano. Una sola differenza: i suoi colori, nei capelli e negli occhi, sono chiari.
«Lo amavo molto e mi piaceva altrettanto. Ogni tanto ci penso. La mia crescente somiglianza, che in tanti notano, mi sembra quasi una emulazione, insieme inconscia e fisiologica, verso lui», dice Piero. Anche se – fra un figlio e un padre – nulla è mai semplice: «La sua capacità di penetrare le cose, di analizzare i problemi e di capire le persone ha condizionato la mia vita in maniera paradossale. Ho dovuto comprendere da solo che non tutti gli altri avevano la stessa lucidità di sguardo e la stessa profondità di pensiero di mio padre. Non è stato facile abituarsi da bambino e da ragazzo, e alla fine accettare da adulto, una realtà che può anche essere ammaccata, minima e poco brillante».
Fisiognomica degli affetti e del potere. Volto privato e immagine pubblica. Vincenzo Maranghi è morto il 17 luglio del 2007. A dieci anni di distanza, Piero accetta di parlare con Il Sole 24 Ore di un padre, che all’età di vent’anni lavorò come praticante in questo giornale, di un banchiere e di un uomo, riservato per metodo e distante dalla vita degli altri soltanto in apparenza. E, così, racconta anche di se stesso, della sua esperienza di imprenditore e di organizzatore culturale fra i più brillanti generati da una Milano che sta ricostituendo, diversamente dal resto del Paese, le sue élite intellettuali e economiche.
Piero ha gli occhi blu venati di rosso e leggermente gonfi per la stanchezza. Alle undici della mattina, prende l’ennesimo caffè. La sera prima ha seguito le prove dell’ultima creatura del suo sodalizio artistico con Paolo Gavazzeni, destinata al sessantesimo Festival dei Due Mondi di Spoleto: la regia lirica di “Delitto e dovere”, liberamente tratta da Oscar Wilde, con musica e libretto di Alberto Colla.
Siamo negli studi di Classica, l’emittente televisiva da lui controllata e diretta: la musica, dunque, che rappresenta bene la prima faccia del suo profilo di imprenditore, completato dalla ristorazione (suoi sono due ristoranti particolarmente amati dai milanesi, La Brisa e La Cucina del Toro). «Mio padre, nonostante il lavoro duro e metodico, è stato tutt’altro che un padre assente e anaffettivo», ricorda Piero. Che aggiunge: «Non mi infastidisce per nulla che la sua immagine pubblica fosse, e sia ancora, improntata alla austerità. Perché quella si riferiva al ruolo e alla istituzione. Lui, però, aveva una attenzione speciale e nascosta alla dimensione privata delle persone. Quando ci parlava di qualcuno, lo definiva sempre con un riferimento personale. Per esempio, di un imprenditore come Roberto Bertazzoni, il fondatore della Smeg, diceva che era amico dell’eremo di Camaldoli». L’attenzione speciale e nascosta alla cifra privata delle persone, che non sono soltanto clienti o affidatari. Quando cita questa dimensione del padre, insieme così interiore e professionale, Piero quasi si emoziona: «Da lui ho imparato che un banchiere senza umanità è soltanto un bancario».
A casa, Vincenzo Maranghi spesso portava l’ironia di Mediobanca, sancta sanctorum del potere italiano gestito con acute intelligenze e non senza sovrastanti pulsioni e la cui missione storica è stata anche, in diversi frangenti, quella di sorreggere capitalisti con pochi capitali e tanti debiti, un non esagerato coraggio e visioni strategiche non proprio lucidissime: «La goliardia si esprimeva nei nomignoli affibbiati a questo e a quello: c’erano “il bicchiere di sabbia”, perché nel deserto di fronte a un pozzo d’acqua avrebbe scelto comunque di riempire il suo bicchiere di sabbia, il “parruccone”, “il cinghialone” e “ottusangolo”». Il colloquio fra noi scivola verso i sorrisi di divertita riprovazione rivolti in Mediobanca a chi nei corridoi camminava sul tappeto rosso riservato a Enrico Cuccia, attirandosi gli sguardi di chi da quella “improntitudine” riconosceva il neofita. Gli uffici di Via Filodrammatici come uno dei cuori del potere italiano più duro e compatto, ma anche come un luogo di amicizie. E, rievocando l’ironia di Mediobanca, vengono in mente alcune bellissime foto conservate nell’Archivio Storico della banca, in cui i due ridono a pieno volto.
A dieci anni dalla morte del padre, è naturale fare dei bilanci. «È chiaro a tutti – dice - , ed era chiaro anche a lui, che i tempi erano mutati. Il tempo di Enrico Cuccia era stato più generoso. Il tempo di Vincenzo Maranghi è stato più complesso. Anche perché, dentro e fuori la banca, mio padre non ha mai avuto, come invece ha avuto Cuccia, un Maranghi».
Il tempo di Enrico Cuccia è stato il periodo aureo di Mediobanca, centrale negli equilibri di potere, fra economia pubblica di matrice Iri e famiglie storiche del Novecento italiano, e nella costruzione di un modello di sviluppo industriale basato essenzialmente sulla chimica e sull’auto. Nel 1964, il Gruppo di Intervento in Olivetti e, nel 1966, il salvataggio della Montecatini. Nel 1976, l’ingresso nel capitale della Fiat della Libyan Arab Foreign Bank e, nel 1981, la privatizzazione della Montedison.
Nel 1982, viene infranto il dogma dell’intangibilità di Via Filodrammatici con l’Iri che chiede alle tre Bin azioniste – le banche di interesse nazionale, la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e il Banco di Roma - di imporre a Cuccia le dimissioni da amministratore delegato e da direttore generale, per limiti di età. Cuccia, che resta come consigliere anziano, viene sostituito in queste posizioni da Silvio Salteri e appunto da Vincenzo Maranghi. All’assemblea di Mediobanca del 1985, il presidente dell’Iri Romano Prodi, contrario a un progetto di privatizzazione elaborato da Cuccia, ordina alle tre Bin di non rinnovare a questi il mandato come consigliere. Cuccia viene nominato da Lazard.
Con la privatizzazione di Mediobanca nel 1988, Maranghi diventa amministratore delegato. Gli anni Novanta sono segnati da non poche difficoltà: il mutamento delle regole del mondo bancario autorizza le banche commerciali azioniste di Mediobanca a operare nel credito a medio e a lungo termine - dunque in competizione con essa – e le privatizzazioni provocano l’apertura del mercato nazionale alle merchant bank straniere, anche se l’istituto guidato da Cuccia e a questo punto da Maranghi realizza le operazioni Telecom Italia, Enel, Banca di Roma e Banca Nazionale del Lavoro.
La morte di Cuccia, il 23 giugno del 2000, acuisce la tensione fra Mediobanca e le banche azioniste, Mediobanca e la politica, Mediobanca e i pezzi di potere italiano prima ancillari e poi ostili ad essa, Mediobanca e quella parte del Paese che ne aveva sempre mal sopportato la centralità e le durezze, la forza spesso unilaterale e la tendenza sovente egemonica.
Ricostruendo nel dialogo questo iter storico, la nostra conversazione non procede mai amara, anche se Piero riconosce le diversità di posizioni fra i protagonisti di quello scontro e non nasconde il disappunto per il trattamento riservato a sua padre da molti imprenditori e professionisti - allevati, nutriti e ben pasciuti nel grembo della vecchia Mediobanca - prontissimi a non difenderlo in quello scontro, terminato con le dimissioni del 13 aprile del 2003.
«Quando parlavamo di quanto accaduto – spiega Piero – lui citava la divisione dell’umanità in cinque categorie, fatta da Leonardo Sciascia nel “Giorno della Civetta”: “Uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà”». Piero, a dieci anni dalla morte del padre, riporta i giudizi del padre, taglienti come pietra degli Urali, il materiale di cui è fatto il tagliacarte consegnato a quest’ultimo da Enrico Cuccia, in segno di comando, nel novembre del 1987, nel venticinquesimo anniversario della sua assunzione in Mediobanca: «Alessandro Profumo, di cui non capiva le intenzioni generali, era il boy-scout, nell’accezione benevola, o il non-pervenuto, nella versione più critica. Rispetto agli inconsapevoli, mio padre aveva più considerazione per i nemici radicali, a patto che fossero portatori di una strategia e di una visione, per quanto antitetiche alle sue: per esempio, Cesare Geronzi. Quindi, nominava gli imperdonabili: il notaio Pier Gaetano Marchetti, il piccolo imprenditore e capo della Fondazione Cassa di Risparmio di Verona Paolo Biasi, il costruttore e assicuratore Salvatore Ligresti. Tutti gli altri, in particolare i Pesenti e Roberto Colaninno, erano per lui i ventri molli».
Nei quattro anni che separano le dimissioni da Mediobanca – lui che come un principe rinascimentale spossessato del suo Palazzo viene salutato un venerdì pomeriggio da tutti i dipendenti ed esce sulla rombante Alfa 147 nera - e la morte segnata dalla malattia, Vincenzo Maranghi sviluppa anche una idea chiara su chi fossero gli amici: «Fra gli altri, Fabrizio Palenzona e Roberto Bertazzoni, Alberto Pecci e Giorgio La Malfa, Antonino Ligresti e Renato Pagliaro, Giancarlo Cerutti e i Gavio», rammenta Piero.
Nella severità dei giudizi finali, si condensa il pessimismo sullo spirito dei tempi, che negli ultimi quindici anni della sua vita era del tutto mutato. «Mio padre era molto preoccupato per Tangentopoli. Quella stagione ebbe senz’altro le sue ragioni. Ma la gogna mediatica e il giustizialismo.... La preoccupazione per il 1992, condivisa con Cuccia, riguardava la capacità, o l’incapacità, del Paese di generare una nuova classe dirigente politica. Mio padre era un vero uomo del Novecento: credeva nella politica. Italiana e europea. E io, per l’educazione che mi ha impartito, continuo a credere nella politica».
Oltre a occuparsi delle sue attività imprenditoriali, Piero Maranghi è stato anche amico e sostenitore di Giuseppe Sala, il sindaco di Milano che sta provando a trovare una sua identità non opposta ma autonoma dal Renzismo. E guarda con interesse all’Europa, «anche se, per noi nati nel 1969, l’Europa ha significato giganti come François Mitterrand e Helmut Kohl. Oggi la statura dei leader è ovunque minore. Emmanuel Macron è il fenomeno più nuovo e originale». Ma, quando cita il neopresidente della Repubblica francese, a Piero viene un sorriso amaro: «Hanno accusato mio padre, ingiustamente, di volere consegnare Mediobanca ai francesi. Lo disse anche l’allora Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, in una audizione in Parlamento, nel 2004. E, ora, guardate: l’Italia è in mano a loro. Le grandi imprese. I vertici delle banche e delle assicurazioni. Sono tutti francesi».
Era suo padre. Vincenzo Maranghi. Quasi un lontano nobile del Cinquecento, nell’Italia bella ma fragile, ricca ma divisa, di nuovo percorsa dagli eserciti dei potentati stranieri.
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