intervista

«Io, quello speciale»

Se ci fosse una coppa al protagonista più “divisivo” nel mondo del calcio sicuramente la vincerebbe lui, lo “Special One”. José Mourinho ripercorre le tappe della sua carriera con “IL” in un'intervista che riserva la grande sorpresa all'ultimo minuto, come in una vera partita di football

di Paolo Briscese

5' di lettura

O lo si ama o lo si odia. È stato così dall'inizio: quando si parla di José Mourinho, spariscono le mezze misure. Cinquantasette anni compiuti, ruvido, schietto, tagliente come le sue battute, il tecnico portoghese oggi alla guida del Tottenham è considerato uno dei migliori allenatori di calcio di tutti i tempi, ma è riluttante alle etichette e pungente nel liquidare i luoghi comuni: «Nel calcio non ci sono superuomini, ci sono solo uomini che vincono più spesso di altri», dice. Quattro volte allenatore dell'anno secondo l'IFFHS, due Champions League, due Coppe Uefa, diverse vittorie di coppe e campionati nazionali: non c'è Paese dove non abbia portato un trofeo e diviso adoratori e detrattori.

Mourinho è uno stratega della comunicazione, più di qualsiasi altro allenatore. Chi non ricorda una delle sue battute più mediatiche: «Nemmeno Gesù piaceva a tutti, figuriamoci io». Antipatico e venerato, è lo “Special One” proprio per la sua capacità di fare di un normale gruppo di uomini una squadra che vince. IL lo ha incontrato per ripercorrere i momenti salienti della sua carriera.

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Mourinho, sono passati oltre 30 anni dal suo esordio nel mondo del calcio. Come è cambiato il suo mestiere?
«È cambiato tanto, così com'è cambiato il mondo in cui viviamo. C'è stata una grande evoluzione sia in termini di coaching sia in termini di gestione dei giocatori e delle squadre di calcio. Tutto è diventato più veloce, più intenso. Per quanto mi riguarda, sono lo stesso “ragazzo”, ho gli stessi princìpi di allora, la stessa identica passione. Ma come è cambiato il gioco, sono cambiati anche i metodi di allenamento, basati su ricerca e statistiche. Oggi la figura dell'allenatore si è evoluta diventando il vertice di una struttura complessa all'interno della quale operano diversi professionisti».

Il momento più emozionante?
«Senza dubbio, battere il Barcellona con l'Inter per 3 a 1, il 20 aprile 2010. Per i giocatori, per me, per i tifosi, è stato il massimo. Eravamo una squadra di eroi. Abbiamo sudato sangue, ma alla fine abbiamo vinto».

E quello più difficile?
«L'eliminazione dalla Champions League quando allenavo il Real Madrid. Eravamo senza alcun dubbio la migliore squadra d'Europa, abbiamo vinto la Liga battendo tutti i record di punti e gol e avremmo vinto quella finale, ne sono certo. Ma quando Ronaldo, Ramos e Kakà sbagliano i primi tre rigori, sai che non è il tuo anno».

Lei ha guidato i club più prestigiosi. Che cosa l'ha spinta ad accettare l'incarico al Tottenham?
«La qualità dei giocatori del Tottenham Hotspur, sia quelli della prima squadra sia quelli della Academy. Far parte di un team con un patrimonio così grande e sostenitori così appassionati è decisivo. Inoltre, le strutture sono incredibili, lo stadio è il migliore del mondo. Io do tutto, ho sempre dato tutto, a ognuno dei miei club. Ora sono al Tottenham e voglio dare il meglio con questa squadra».

È il decennale del “triplete” raggiunto dalla sua Inter, stagione 2010. Un trionfo memorabile, e un capitolo degno di nota nella storia del calcio europeo.
«Quell'impresa significa ancora tanto per me. L'Inter era la mia casa, la mia famiglia. Massimo Moratti era un amico, il mio presidente. L'impresa del “triplete” è stata fantastica e resta indimenticabile. Dopo la finale di Madrid, se fossi tornato a San Siro per festeggiare con giocatori e tifosi non avrei mai lasciato l'Inter. Dire addio a una famiglia è una cosa molto difficile da affronatre. Dieci anni dopo, continuiamo a essere una famiglia. È stata questa la nostra forza anche sul campo, siamo amici e lo saremo per sempre. La sera in cui abbiamo vinto la Coppa la decisione era già stata presa: non potevo dire no al Real Madrid per la terza volta. Ma mi guardo indietro con grande serenità e orgoglio».

Quali caratteristiche deve avere un giocatore per essere scelto da mister Mourinho?
«Grande personalità. Sul campo, è fondamentale. Deve essere un uomo che vuole essere leader, che ha fiducia in se stesso. Se c'è un rigore all'ultimo minuto, vuole assumersi la responsabilità delle sorti del match; se la squadra sta perdendo la partita 1-0, prende la palla e organizza il gioco, facendosi trascinare dal desiderio di vincere. Può giocare con dolore, anche se è infortunato. Se potessi avere undici uomini con questa personalità, ne avrei undici!».

Vittorie, accese rivalità e una personalità che non lascia indifferenti: è riuscito a farsi degli amici nell'ambiente?
«Ma certo. Quando entri in un club, il club diventa famiglia e i legami possono durare nel tempo. Sono ancora amico di molti giocatori e persone dello staff di squadre con cui ho lavorato durante la mia carriera. La mia priorità è sempre stata quella di stabilire relazioni affettive all'interno del gruppo, per creare stabilità. Voglio bene ai miei ragazzi, Marco Materazzi, John Terry… Penso che il nostro legame durerà per sempre, e ne vado fiero».

Di chi si fida maggiormente quando deve prendere decisioni difficili?
«Devi fidarti della tua squadra, dei tuoi giocatori, dello staff e loro devono fidarsi di te. Solo così puoi avere successo. Quando la fiducia cade a pezzi, può diventare pericoloso».

Ci racconti del suo legame con Milano, città dove è stato particolarmente felice.
«Sì, a Milano ero felice. In realtà, in quel periodo, la mia vita si divideva tra Appiano Gentile e Como. Per me Milano era San Siro, lo stadio, la tifoseria, l'Inter e l'interismo. È un luogo speciale che mi porterò sempre nel cuore; una città con cui ho un legame sentimentale fatto di ricordi magnifici. Uno su tutti, l'ho detto prima e lo ripeto, la vittoria del “triplete”».

Quando fa un bilancio della sua carriera, si è mai pentito di qualcosa? Ha rimpianti?
«Mi pento di alcuni episodi aggressivi avvenuti sulla linea laterale. Per esempio: con Arsène Wenger, abbiamo avuto battaglie incredibili, grandi partite e grandi lotte. Rimpianti? Piccoli episodi negativi, sì, e probabilmente anche lui prova lo stesso».

Spesso è stato al centro di polemiche per le sue dichiarazioni al vetriolo: non crede di essere stato troppo diretto, in alcune occasioni?
«Lei trova?! Sono semplicemente stato me stesso, ho scelto di essere sempre diretto con i giornalisti e di dire sempre esattamente quello che penso. Se a volte ho esagerato? Forse sì, ma per onestà. Sono un uomo vero».

Tornerà ad allenare da noi?
«Non credo. È una sensazione, ma non penso che nel mio futuro ci sia l'Italia. È anche vero che il mondo del calcio è così imprevedibile, e non si può mai dire mai».

Novanta minuti per stabilire chi è il più forte di tutti: che rapporto ha con il tempo?
«Quando sei sotto di un gol, vorresti semplicemente che il tempo si dilatasse per ribaltare il risultato; quando sei in vantaggio, il tempo è infinitamente lento e non desideri altro che l'orologio acceleri... Amo gli orologi, da sempre. Sono una delle mie passioni, penso che siano gli unici gioielli di cui un uomo ha bisogno e anche per questo sono “ambasciatore” del brand Hublot».

E il suo tempo libero?
«Quale tempo? Il calcio è il mio mondo, la mia vita, la mia passione. Non riesco davvero a godermi il tempo libero. Quando ho avuto un po' di tempo per me stesso, il primo in vent'anni, non ero abbastanza felice per divertirmi: mi mancavano il calcio, i tifosi... il fuoco! Nei mesi scorsi, ho aiutato Age UK Enfield a consegnare viveri e medicinali e beni di prima necessità ai membri anziani della società, evitando che uscissero con il rischio di venir contagiati».

Ha parlato di “fuoco”: come fa a tenerlo vivo?
«Continuando a imparare. Anche nel calcio, di cui mi sento un esperto, non sono mai perfetto: c'è sempre qualcosa di più o di meglio. La gente pensa che io non sia umile. In realtà è l'opposto. Sono pronto a imparare da chi ne sa più di me. E a spingere per avere più successo, sempre»

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