Iris Van der Veken: «Solo unita e collaborativa l’industria dei gioielli sarà più sostenibile»
Le sfide più urgenti del settore secondo la direttrice esecutiva della Watch & Jewellery Initiative 2030, lanciata da Cartier e Kering e oggi con 40 membri: «Inclusività e tracciabilità sono necessarie per produrre, vendere e attrarre talenti»
di Chiara Beghelli
4' di lettura
«Mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme un successo», notava Henry Ford. Dopo oltre un secolo l’industria è profondamente cambiata, ma non il senso di quel principio. Lo dimostra la formula della Watch & Jewellery Initiative 2030, lanciata un anno fa da Kering e Cartier per promuovere la sostenibilità nell’industria dei preziosi, e che raccoglie oggi oltre 40 membri, da marchi globali come Chanel, Jaeger-LeCoultre e Swarovski a aziende di filiera come Mattioli a istituzioni come il Gemological Institute of America (Gia), ma aperta anche a ong, istituzioni pubbliche, mondo accademico e finanziario. «Abbiamo una governance partecipata da varie realtà, questa è la nostra forza», spiega Iris Van Der Veken, da otto mesi alla guida della WJI 2030.
Quali sono i pilastri della vostra strategia?
Credo molto nel valore della diversità, come dimostra la composizione del nostro board. Abbiamo finora organizzato due workshop, in Cartier e in Kering, coinvolgendo tutti i nostri membri, per condividere priorità e programmi. Stiamo continuando a formare i nostri membri e a guidarli con gli strumenti e le competenze necessarie, non solo nei loro processi diretti, ma aprendoci a tutta la filiera. Vogliamo realizzare la nostra strategia insieme ai membri del nostro board, come Fréderic Grangié, ceo di Chanel Jewellery, fornitori e produttori come Mattioli e Rosy Blue, e con due esperti indipendenti come Georg Kell, cofondatore del Global Compact delle Nazioni Unite, che è anche la più importante iniziativa legata alla sostenibilità del mondo, e come Anino Emuwa, direttrice di Avandis Consulting e fondatrice del 100 Women @ Davos. Credo molto nella diversità del nostro board, ed è per questo che abbiamo anche lanciato una call for interest riservata alle Ong. Abbiamo poi molte, importanti partnership. Non vogliamo rivoluzionare tutto, ma lavorare insieme in un contesto sempre più ampio per aiutare i nostri membri ad accelerare nel loro percorso. Per questo abbiamo anche accordi con Boston Consulting Group, ESG Book, con il Global Compact delle Nazioni Unite, con UN Women, tutte collaborazioni che ci aiuteranno a creare un circolo, come amo chiamarlo, di azioni e un circolo della fiducia.
L’industria dei gioielli non è composta solo di grandi marchi, ma di numerose piccole imprese, che a volte fanno fatica a intraprendere un percorso di sostenibilità.
Come dicevo è cruciale coinvolgere tutti. Le pmi hanno bisogno di una speciale attenzione. Insieme all’UN Global Compact, nostro partner, stiamo lavorando a un sistema di strumenti dedicato proprio a loro, su temi come il clima, la biodiversità, i diritti umani.
Quali sono i vostri prossimi obiettivi?
Siamo fiduciosi di poter trovare delle soluzioni utili non solo a singole realtà, ma per tutto il sistema. Non puntiamo a coinvolgere migliaia di aziende, ma a condividere tutto quello che facciamo e raggiungiamo. Vogliamo anche accelerare sui processi di trasparenza, tracciabilità e sulla condivisione dei dati. Credo che grazie a un quadro legislativo in veloce evoluzione, come il Green Deal dell’Unione Europea, sia finita l’era del greenwahsing, del bluewashing e del pinkwashing: se sei un’azienda sostenibile, lo devi provare.
L’industria dei preziosi ha raggiunto un grado soddisfacente di sostenibilità?
Quando sono arrivata nel settore, oltre 20 anni fa, il gruppo De Beers lanciò i suoi principi di best practice, un esempio seguito da altre compagnie di estrazione che iniziarono a promuovere gli audit. Nel 2005, poi, è stato fondato il Responsible Jewellery Council (da lei presieduto fino a marzo 2022, ndr), che ha fissato un altro importante passo in avanti con il suo Codice di pratiche, che è un buono standard. E poi ecco la nostra WJI 2030. Sono risultati importanti, ma c’è ancora molto da fare su temi come la biodiversità, il clima, il gender gap e l’inclusività. La nostra industria è influenzata al 90%, in diversi modi, dalle donne. Attraverso la nostra partnership con la UN Women sosterremo le aziende nell’empowerment femminile.
Eventi come la pandemia e la guerra in Ucraina hanno influito su questo percorso?
Certo, per esempio la guerra ha evidenziato ancora una volta la necessità che i nostri prodotti non sostengano i conflitti. Credo che tutto questo spingerà le aziende a considerare con molta più attenzione le loro fonti di approvvigionamento. Protocolli come il Kimberley Process, per i diamanti, devono evolversi. In questo senso, ho molta fiducia nella prossima presidente del World Diamond Council, Feriel Zerouki.
Che ruolo hanno i consumatori in questo processo?
Quando si compra un gioiello non si desidera solo che sia bello, ma anche che sia fatto bene, che derivi da pratiche sostenibili, che abbia un impatto positivo. Tutti i report sono unanimi sul fatto che le giovani generazioni, Millennials e Gen Z, preferiscano acquistare prodotti di aziende che esprimano valori, abbiano uno scopo. Ma anche lavorare per loro. Paul Polman ha parlato dei conscious quitter, persone che non vogliono lavorare per aziende in cui non credono. Essere responsabili e sostenibili è anche un modo per attrarre e mantenere talenti.
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