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Isgrò: «Non mi piace la cancel culture. Le mie cancellazioni sono desiderio di verità»

Emilio Isgrò, classe 1937, è l’artista che ha inventato la “cancellatura”. Qui racconta il suo percorso artistico, gli anni del giornalismo e il significato delle sue opere

di Paolo Bricco

6' di lettura

«Negli anni 80 e negli anni 90, il telefono non suonava. Per lungo tempo ho lavorato con piccole gallerie e in circuiti minori. Negli anni 80 ha influito la mia non appartenenza alla Transavanguardia. La mia ricerca ha una specificità non riducibile a scuole e a movimenti organizzati. Mi era già successo con l’Arte Povera negli anni Settanta. Nessuno mi ha mai cercato e io non ho mai desiderato appartenenze che erano culturalmente e commercialmente egemoniche.

In quel momento, esisteva una strutturazione rigida del rapporto fra cultura e comunicazione, mercato e arte, ideologia della critica e scelte individuali degli artisti, collezionisti e mercanti. Il periodo di disattenzione pubblica e di non apprezzamento per il mio lavoro è stato molto utile. Ho potuto sviluppare in piena tranquillità il mio pensiero. Mia moglie Scilla, con cui sono fidanzato dal 1981 e sposato dal 1984, è stata fondamentale. Lei faceva la giornalista nei periodici Mondadori. Vivevamo bene con il suo stipendio, in anni in cui l’editoria era un settore florido. E, poi, lei con la sua irruenza e le sue durezze da ragazza friulana è stata importante perché io, quando in pochi volevano le mie opere, non assumessi comportamenti prostitutivi e collusivi rispetto alla realtà».

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La cancellatura, nascondere una parola per ridarle vita

Emilio Isgrò, classe 1937, è l’inventore del linguaggio artistico basato sulla “cancellatura”, che dal 1964 restituisce nuova forza alla parola dei grandi classici della letteratura, dei testi sacri delle religioni, delle dichiarazioni degli uomini non illustri su loro stessi, semplicemente nascondendola: «È un nascondimento che custodisce e protegge, disvela nel suo significato e ne conferisce di nuovi alla parola cancellata. Non ha nulla di nichilista».

Emilio parla con serenità degli anni in cui nessuno desiderava le sue cose. Ci troviamo alla Osteria della pasta e fagioli di via Venini. È l’una e mezza. In questo ristorante pugliese, un gruppo di muratori sta mangiando bistecche di cavallo cotte alla brace alte un dito. Siamo nella Milano più popolare e meno stereotipata, quella compresa fra Piazzale Loreto e Via Padova: l’immigrazione meridionale degli anni 50 e 60 ha lasciato una scia di panetterie e pasticcerie napoletane e palermitane, negli anni 70 la mala milanese qui aveva una bisca in ogni sotterraneo e in ogni retrobottega di bar, oggi i nuovi italiani figli e nipoti del Maghreb, delle Filippine e della Thailandia camminano sui marciapiedi assolati di fine agosto.

Mentre guarda il menù e la lista dei vini Emilio, che ha una estetica e una fisiognomica siciliana per nulla retoricamente pessimiste perché intrise del razionalismo francese e dell’empirismo inglese che ne hanno stemperato il profilo più noir, gioca con la chiave dell’ironia: «Credo così poco al successo, che ne voglio ancora di più».

Il rapporto con il mercato dell’arte

Oggi Isgrò è uno degli artisti che, sul mercato dell’arte, è in grado di negoziare con maggiore autorevolezza le occasioni e i prezzi. Ha un rapporto “maturo” e consapevole con i grandi mercanti internazionali. Facoltosi collezionisti italiani e stranieri si rivolgono direttamente a lui, che li riceve nella casa-studio-museo di Via Martiri Oscuri. In Italia ha una collaborazione assidua con la galleria di Milano M77 e con la Tornabuoni Arte. Il suo ultimo lavoro – «Isgrò cancella Brixia» – è un progetto complesso fatto di installazioni, dipinti e teatro in cui la metafora della cancellazione di Brescia si realizza avendo come sottostante una rete istituzionale imperniata sulla Fondazione Brescia Musei, presieduta da Francesca Bazoli. Inoltre, è uno dei pochi artisti italiani ad avere un rapporto vero con il pubblico più giovane. «Mi stupisce sempre l’entusiasmo con cui i ragazzi mi seguono, mi scrivono, cercano il dialogo», dice mentre beve un bicchiere di Salice Salentino della casa vinicola Leone De Castris.

Questo signore siciliano è un altro - l’ennesimo - figlio forestiero di Milano: «La mia famiglia è di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Mio padre Giuseppe era un artigiano ebanista, appassionato di musica, autodidatta, un polistrumentista che riempiva la casa di libretti d’opera. Mia madre Elisa era casalinga. In estate mio padre suonava in una orchestrina da ballo nelle località di mare della costa siciliana e io, bambino, introducevo lo spettacolo. Per loro era importante che io, mia sorella Maria Rosa e i miei fratelli Bruno e Aldo studiassimo. Dopo la maturità classica, scelsi di venire a Milano. Con il treno dalla Sicilia arrivai alla Stazione Centrale il 4 novembre 1956. Era mezzogiorno. Il sole, da sopra il cielo, illuminava la nebbia”.

Dal giornalismo alla poesia, le vocazioni di Isgrò

Alla Osteria della pasta e fagioli, io ed Emilio componiamo due piatti abbondanti di antipasti misti: treccia di mozzarella, salame, salame piccante, caciocavallo e scamorza affumicata. «A Milano, oltre ad essere iscritto alla facoltà di Scienze Politiche della Cattolica, scrivevo sulle pagine culturali dei giornali. In particolare, lavoravo per l’ “Avanti!”. Nell’Italia del Boom economico, i quotidiani di partito erano diffusi, letti trasversalmente e autorevoli. Milano era una città piena di libertà e di occasioni. Ho potuto dedicarmi alle mie molteplici vocazioni: il giornalismo, la poesia, l’amore per le arti visive. Le porte erano aperte per tutti. L’anno dopo il mio arrivo in città, la mia raccolta di poesie Fiere del Sud uscì con l’editore Arturo Schwarz, che pubblicava Salvatore Quasimodo e Giuseppe Ungaretti. Ero un ragazzo. Parlavo con Eugenio Montale. Fiere del Sud venne citata con generosità da Pier Paolo Pasolini in un suo articolo».

I camerieri portano due piatti giganteschi di orecchiette con fave e cicoria.

«La mia attività di artista visuale e concettuale ha oscurato quella da poeta e da scrittore, anche se il mio libro L’avventurosa vita di Emilio Isgrò nelle testimonianze di uomini di stato, scrittori, artisti, parlamentari, attori, parenti, familiari, amici, anonimi cittadini nel 1975 venne candidato allo Strega», dice non senza una ombra di malinconia.

Anche se gli si illuminano gli occhi come di una speranza, quando aggiunge: «Però, a ottobre, uscirà una mia nuova raccolta di poesie da Guanda. Il titolo sarà Sì alla notte».

Dal 1960 al 1967, Isgrò si trasferisce a Venezia, dove è responsabile della terza pagina e degli inserti a contenuto culturale del «Gazzettino»: «A Milano gli intellettuali e i grandi borghesi si frequentavano, si rispettavano e si riconoscevano. A Venezia l’aristocrazia secolare non aveva forme di alterigia sprezzante, ma anzi era divertente e vivace. A Milano e a Venezia esistevano le classi sociali. Ma, in entrambe, non esisteva il classismo. A Venezia viveva Teresa Foscari Foscolo. Era bellissima e spregiudicata, anticonformista e politicamente progressista: la chiamavamo la contessa rossa. E, poi, la città era segnata da una personalità incredibile come Peggy Guggenheim. Essere il caporedattore della terza pagina del “Gazzettino” mi ha permesso di frequentare questi ambienti. Mi sono divertito assai».

Dopo un poco, tutti e due ci arrendiamo, lasciando almeno la metà di un piatto di orecchiette, buonissime, che ne vale tre.

La rottura con Montale

Isgrò, per molti anni, non sceglie. Fa il giornalista culturale fra Milano e Venezia. Si muove nell’ambiente letterario come autore e come giovane amico dei maggiorenti: «Quando Montale veniva a Venezia, soggiornava dal conte Vittorio Cini, mi telefonava e passavamo ore a passeggiare su e giù per i ponti e per le calli, lui sottobraccio a me, impegnato a parlar male, con grande affetto e stima però, di Quasimodo e di Ungaretti».

Il giovane Emilio riflette sui canoni della pittura, dipinge, espone. Nel 1964, la galleria Apollinaire di Milano ospita la mostra «Le poesie visive di Emilio Isgrò». La sua ricerca porta, nel 1970, alla cancellatura della Treccani, il “luogo” più istituzionale, ferrigno ed aureo della cultura italiana di matrice idealistica del Novecento. «Con Montale – ricorda Isgrò – arrivammo ad una rottura, io credo che lui interpretasse in maniera letterale le mie cancellature e pensasse vi fosse in me una spinta provocatoria che, invece, non è mai esistita. Io, di fronte alla deriva del modernismo che considerava la parola cosa morta e i significati profondi elementi deboli, ho sempre pensato che il nascondimento della parola non fosse occultamento, ma protezione. Ho in me una propensione al sacro, nonostante io non sia tecnicamente religioso. Mi hanno sempre colpito i versi di Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”».

«La cancel culture? È una forma di decadenza»

I camerieri portano cannoli alla ricotta. In Isgrò colpisce la miscela fra leggerezza individuale e ricerca metafisica. In questo, sembra ricollegarsi non soltanto alla tradizione visiva di Lucio Fontana, ad Alberto Burri e ad Alberto Giacometti, ma anche alla dorsale letteraria dei Leonardo Sciascia e dei Gesualdo Bufalino, sempre sospesi fra la vertigine straniante della non conoscenza e il desiderio ossessivo della verità. «A me non piace per nulla la cancel culture che si è diffusa nella cultura, nell’editoria e nella università americana. Credo che essa esprima una particolare forma di decadenza occidentale. La mia cancellatura è concettualmente ed esteticamente il contrario: distruzione apparente, custodia reale, silenzio dell’anima, desiderio di nuova verità», conclude Emilio Isgrò, ragazzo di Barcellona Pozzo di Gotta arrivato a Milano un mezzogiorno di tanti anni fa, quando ancora il sole, da sopra il cielo, illuminava la nebbia.

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