ISS: «Manca un sistema coordinato di telemedicina, inserirla nei livelli essenziali di assistenza»
A tre anni dalla pandemia la posizione di Francesco Gabrielli direttore del centro ad hoc dell'Istituto. «Non partire dalle tecnologie ma dai bisogni dei pazienti»
di Simona Rossitto
I punti chiave
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(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Per fare applicazioni di telemedicina che servano realmente ai pazienti «non bisogna partire dalle tecnologie da usare, questo è l'ultimo aspetto che va affrontato» ma «occorre partire dai bisogni della gente, dei pazienti e dei professionisti». E' la posizione di Francesco Gabbrielli, direttore del Centro nazionale per la telemedicina e le nuove tecnologie assistenziali dell'Istituto Superiore di Sanità (ISS). Facendo il punto a tre anni dalla pandemia e dal momento in cui la telemedicina è balzata al centro dell'attenzione di tutti in concomitanza con l'emergenza Covid, il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto: i progressi ci sono stati, ma manca ancora un sistema coordinato nazionale di telemedicina e norme adeguate.
«La telemedicina non deve essere solo un mezzo per risparmiare quattrini»
La telemedicina, spiega Gabbrielli a DigitEconomy,24, report del Sole 24 Ore Radiocor e di Digit'Ed, nuovo gruppo attivo nella formazione e nel digital learning, «non deve essere intesa solo come un modo di risparmiare quattrini senza dare alle persone nuove possibilità di cura e servizi. Per prima cosa vanno formati i professionisti in modo che siano capaci di utilizzare al meglio l'innovazione nelle attività reali di tutti i giorni; nel frattempo, bisogna formare anche i giovani che stanno cominciando la carriera o stanno finendo l'università, in modo tale che siano preparati anche a preparare nuovi servizi, nuove soluzioni. Noi vogliamo creare un sistema in cui i professionisti della salute a tutti i livelli, sia nelle professioni sanitarie sia in quelle dirigenziali, sia a livello di decisioni territoriali, siano in grado di partecipare attivamente alla progettazione corretta di sistemi di telemedicina».
«Privilegiare innanzitutto gli applicativi più semplici, già usati in pandemia»
Per iniziare è meglio privilegiare quegli applicativi di telemedicina che sono più semplici, quelli già utilizzati in pandemia. «Sono le applicazioni – spiega Gabbrielli - che abbiamo usato all'impronta, quando all'improvviso le Regioni e il Ministero si sono trovati di fronte a medici che attivavano servizi a distanza per necessità. E' stato allora che il Centro Nazionale per la telemedicina, come centro di competenza in materia e sulla base degli studi già fatti, ha realizzato un modello di riferimento di telemedicina, da usare sul campo durante la pandemia, partendo dalle cose più semplici da fare: la televisita, il teleconsulto, telecontrollo e telemonitoraggio, la teleconsulenza e la teleassistenza».
Bilanco in chiaro-scuro a tre anni dalla pandemia
A tre anni dalla pandemia il bilancio è in chiaro-scuro. «Al di là dei buoni propositi, il sistema sanitario non usa ancora la telemedicina in maniera sistematica e coerente sul proprio territorio. Come accadeva prima della pandemia ognuno si organizza con modalità e risultati variegati. Premettendo che telemedicina è territoriale per definizione, perché va sempre adattata alle differenti reali esigenze, c'è però bisogno anche di un sistema coordinato a livello nazionale, ovvero tutti dovrebbero avere dei minimi comuni denominatori su cui basare la realizzazione dei propri servizi. In questo modo avremmo due risultati: controllare l'esito di quello che viene fatto e riutilizzare le buone pratiche. In più possiamo ottimizzare le risorse economiche, con numerosi vantaggi per il sistema Paese. Non è poi da sottovalutare che si risolverebbe un problema di equità di accesso alle cure visto che ci sono, come spesso accade in ambito sanitario, Regioni più avanti e altre con maggiori difficoltà. Una problematica da risolvere a livello legislativo riguarda il fatto che a tutt'oggi le prestazioni di telemedicina non sono comprese nei Lea, ovvero nei Livelli essenziali di assistenza. Possono essere chieste dal cittadino, ma non pretese. Non è una questione facile da risolvere, visto che necessita di sistemi specifici di autorizzazione e accreditamento che sono ancora da costruire. Si può, ad esempio, sviluppare un sistema di televisita a distanza, ma non far scaturire da tale attività un certificato di malattia, pena andare incontro a reati penali. Bisogna, quindi, modificare le leggi adeguando ai tempi delle norme precedenti a Internet, che vanno anche tenute aggiornate per non farle diventare obsolete, visto che l'evoluzione digitale è così veloce». Guardando il bicchiere mezzo pieno, nonostante non ci sia il coordinamento necessario, né un sistema strutturato capace di evolvere, c'è una gestione territoriale che si fa strada, anche se a macchia di leopardo, «la pandemia ci ha insegnato moltissimo. Tutte le indicazioni sui servizi di telemedicina che abbiamo dato durante il Covid sono ancora valide e se dovesse arrivare una nuova pandemia ci troverebbe più preparati, basterebbe riprendere documenti e indicazioni scritti allora e si metterebbe su più rapidamente un sistema di telemedicina adatto. Il Covid ha un po' ‘sdoganato' la telemedicina rispetto al 2020, fino al mese prima ne parlavamo solo noi addetti ai lavori, ora anche chi ha cominciato a occuparsene nel 2020 ha già tre anni di esperienza, o almeno di conoscenza».
«Fiducioso che per il 2026 saranno operativi realmente servizi come le televisite»
D'altronde «riorganizzare in modo uniforme un sistema pubblico di telemedicina è un'impresa non di poco conto. Esistono Stati che hanno già fatto una cosa del genere, organizzato i dati di tutti i cittadini in modo analogo al nostro fascicolo sanitario elettronico, codificato le prestazioni professionali, ma sono stati piccoli come, ad esempio, Israele o la Lituania. Procedere per 60 milioni di persone non è semplice. Ci vuole competenza, ma è possibile».In questo contesto si inseriscono i finanziamenti del Pnrr e la scadenza del 2026 che si avvicina. «Per questa data sono abbastanza fiducioso che una serie di servizi potrà essere resa operativa realmente in Italia, tipo le televisite, i teleconsulti, i telecontrolli domiciliari dei pazienti cronici. Sono sistemi relativamente facili da organizzare anche su vasta scala e dal punto di vista medico ne è stata già dimostrata ampiamente l'utilità anche da vari studi italiani». Invece, per un altro tipo di lavoro, «con l'implementazione di un sistema di telemedicina a 360 gradi per tutte le patologie, tutte le specializzazioni, ancora servono diversi anni».
Il 5G e l'Ai faranno fanno parte di questo scenario? «Si tratta di tecnologie che si affacciano adesso, sono molto promettenti ma dobbiamo dimostrare la loro utilità a livello medico. Suggerisco sempre di non avventurarsi nell'uso di innovazioni tecnologiche non sperimentate. Bisogna tener presente che tecnologie digitali che funzionano dal lato ingegneristico non è detto siano veramente utili al paziente. Utilità che va, quindi, dimostrata con sperimentazioni cliniche che richiedono tempi di maturazione ed esecuzione e risorse per poterle svolgere». Basti fare un esempio per le operazioni chirurgiche a distanza; la prima, ricorda il manager, è stata fatta nel 2001 con una paziente a Strasburgo e il chirurgo (professor Marescaux) a New York, poi ne seguirono una ventina in Canada e via via altre esperienze nel tempo. Rispetto ad allora sono stati fatti grandissimi progressi e, in teoria, l'intervento a distanza, almeno con compartecipazione di un chirurgo in presenza, è già possibile oggi. Ma anche questa opportunità va messa a regime, non si può improvvisare, e per questo occorre tempo».
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