Italia e Giappone al Mudec, lunga storia di scambi e fascino
Due le mostre che si aprono il primo ottobre coprendo tutti gli spazi espositivi: «Impressioni d’Oriente. Arte e Collezionismo tra Italia e Giappone» e «Quando il Giappone scoprì l’Italia. Storie d’incontri (1585-1890)»
di Stefano Carrer
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Ha un respiro di grande attualità l’iniziativa per cui il Mudec, Museo delle Culture di Milano, ha deciso per quattro mesi di sgombrare la sua collezione permanente: il progetto «Oriente Mudec» racconta dal punto di vista artistico, storico ed etnografico l’incontro culturale tra due mondi: il Giappone e l’Europa (soprattutto Italia e Francia).
Due le mostre che si aprono il primo ottobre coprendo tutti gli spazi espositivi: «Impressioni d’Oriente. Arte e Collezionismo tra Italia e Giappone» e «Quando il Giappone scoprì l’Italia. Storie d’incontri (1585-1890)». La prima, prodotta da 24 Ore Cultura, offre una avvincente panoramica sul «Giapponismo», il fenomeno che, a partire dalla seconda metà dell’800, investì come un turbine la cultura artistica occidentale fino a diffondersi dalle élite a strati più larghi della popolazione. Quattro le sezioni: Il Giapponismo tra realtà e fantasia; Da Oriente a Occidente: ispirazioni giapponesi nell’arte italiana e francese tra il 1860 e il 1890; Import-Export: gli scambi globali; il Giapponismo italiano.
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La seconda si suddivide in due sezioni: una sulle «ambascerie» giapponesi in Italia del 1585 e del 1615, incentrate sui ritratti dei due protagonisti: quello di Ito Mancio di Domenico Tintoretto (esposto per la prima volta in Europa) e quello del samurai Hasekura Tsunenaga attribuito ad Archita Ricci; la seconda vede come protagonista la collezione del Conte Giovanni Battista Lucini Passalacqua, che fu acquisita dal Comunedi Milano nel 1899 con una sottoscrizione publica.
Navigare per le origini del rapporti con il Sol levante e per le infatuazioni collettive di un secolo e mezzo fa - quando il Paese si riaprì al mondo dopo oltre due secoli di isolamento totale - offre grandi stimoli intellettuali per la comprensione del «Neogiapponismo» di oggi: fenomeno di massa per cui il «soft power» nipponico ha invaso numerosi ambiti della nostra cultura e delle nostre abitudini di vita, fino ad arrivare a punte di fanatismo presso un numero sorprendente di giovani. Già a metà del Seicento Daniello Bartoli scriveva: «Da molti secoli addietro non v’è stata parte del mondo che né a più degno spettacolo, né più da lungi, né in atto di più contrari affetti, abbia a sé tirati li occhi del mondo quanto l’isole del Giappone».
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Se oggi le distanze si sono accorciate e anche dall’Italia il turismo verso l’arcipelago è diventato di massa, il Giappone rischia di restare ancora largamente immaginario, come lo era ai tempi in cui aveva sostituito il Vicino Oriente come paradigma dell’esotismo.
Le Olimpiadi 2020 di Tokyo rilanceranno ulteriormente l’interesse anche editoriale per un Paese che continua ad affascinare nel suo mix unico tra tradizione e modernità . I Giochi faranno anche da simbolo di un avvicinamento: vari osservatori parlano oggi di «quarta apertura» del Sol Levante al mondo. La prima avvenne nella seconda metà del ’500, con l’importazione delle armi da fuoco (che contribuirono ad accelerare l’unificazione del Paese sotto un nuovo shogunato) e l’introduzione del cristianesimo finita tra grandi persecuzioni. La seconda, a metà Ottocento, accompagnò l’introduzione delle tecniche industriali a una curiosità per tutto ciò che veniva dall’Occidente (in parte documentata nella mostra con lavori di scuole votate a una sorta di sincretismo artistico). La terza, dopoil trauma della guerra, vide l’import della democrazia politica sotto l’egida americana.
Oggi il Giappone apre la sua economia con gli accordi di libero scambio e un sia pur parziale cedimento all’immigrazione reso obbligato dalle carenze di forza lavoro. La firma della «Strategic Partnership» con l’Unione Europa dimostra il suo ancoraggio al valori di derivazione occidentale, mentre l’attesa valanga di turisti per le Olimpiadi diffonderà la lingua inglese persino sui menù delle «izakaya».
Di «volontà di approfondire e comunicare al grande pubblico una storia di fascinazione prepotente e reciproca» parla la direttrice del Mudec, Anna Maria Montaldo, che sottolinea come le mostre saranno fruibili sia a un livello molto colto sia in una ricezione più immediata. Il Giappone è vicino. Dal Giappone - culturalmente parlando - non si sfugge. E il Mudec apre a «un nuovo modo di pensare la geografia delle relazioni culturali», come afferma l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno: in una Milano città aperta, va in scena una continua verifica di come altre culture ci influenzino e finiscano per apportare modifiche alla nostra stessa identità.
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