Italia-Spagna, ultima curva da non sottovalutare
Stasera la semifinale europea con la Spagna di Luis Enrique. Una gara sempre difficile, ma che gli azzurri di Mancini possono affrontare a testa alta
di Dario Ceccarelli
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Calma e gesso, come dicevano gli antichi saggi del calcio. Calma e nervi saldi perchè prima dello sprint conclusivo - quello della finale dell'11 luglio a Londra - abbiamo davanti a una curva piuttosto impegnativa che non ammette distrazioni. Prenderla male è un attimo e, se vai fuori, vai fuori, non c'è possibilità di rialzarti.
La sfida con la Spagna infatti non è scontata. Vero che non è più l’Invincibile Armata che per quasi un decennio ha dominato il mondo calcistico (due Europei e un Mondiale), però la Roja resta sempre una squadra che ci può far male. E che negli ultimi anni, molto spesso a sfavore, ha sempre condizionato il nostro destino. E non ci deve portare fuori strada un dato: che la squadra di Luis Enrique, nel cammino di questo Europeo, ha faticato molto più dell'Italia. Nè insuperbirci perchè gli azzurri hanno travolto la Svizzera mentre gli spagnoli, nonostante fossero in superiorità numerica, con gli elvetici l'hanno sfangata solo ai rigori.
Non vale. Questo Europeo l'ha già dimostrato: ogni partita fa storia a sé. Quindi, anche se l'Italia viene da una splendido successo con i belgi (primi al mondo secondo la Fifa), sarà bene non montarci troppo la testa. Finora non ci è capitato, pur essendo imbattuti da 32 partite e pur avendo vinto cinque partite su cinque di questo torneo. Però troppi applausi, e troppe sirene, possono confondere. In più, anche se Mancini minimizza, non poter disporre dei blitz di Spinazzola, forse il più imprevedibile degli azzurri, può pesare. Lo sostituirà Emerson Palmieri, titolare nel Chelsea dal 2018. È un buon sostituto, ma come dice Mourinho «Spinazzola stava giocando in un modo incredibile».
Prima di affrontare l'ultima curva, partiamo allora da una certezza: siamo tra le prime quattro d'Europa. Un risultato eccezionale. Tre anni fa, usciti dalle ceneri di un mondiale mancato, un risultato simile non l'avrebbe pronosticato nessuno. La nazionale era con la faccia per terra. Al suo punto più basso da almeno mezzo secolo. Aveva esaurito il suo potere attrattivo. Non scaldava il cuore, non faceva simpatia. L'idea comune era che, al massimo, l'Italia portasse a casa qualche risultato utile. Che di riffa o di raffa, con un gol in contropiede o un episodio fortunato, salvassimo la pelle. Non c'era gioco, non c'era un gruppo, non c'era orgoglio.
Ora è tutto cambiato. In modo radicale. A parte la lunghissima striscia di risultati utili, quello che ora c'è, e che ci tutti ci invidiano, è la nostra identità vincente. Lo si è visto anche col Belgio, dove pure nella ripresa la partita avrebbe potuto girare male. E dove pure ci sono stati degli errori (l’ingenuo fallo del rigore di Di Lorenzo, la scarsa incisività di Immobile). Piccole grandi manchevolezze che però non ci hanno mai fatto cambiare atteggiamento. Quell'atteggiamento che è diventato il nostro biglietto da visita: gioco veloce e filtrante, pressing alto, possesso di palla, sicurezza dei propri mezzi. Questo traguardo ormai è stato raggiunto. Non c'è curva che tenga. E questo è un dato di base che nessuna Spagna può più toglierci.
Da quello che filtra, Mancini è propenso a mantenere la stessa formazione partita dall'inizio contro il Belgio. Con la solita mediana “creativa “(Barella, Jorginho, Verratti) e l'attacco a tre con Insigne, Immobile e Chiesa. L'unico che non ha convinto, come sappiamo, è il centravanti della Lazio, pochissimo ispirato contro il Belgio. Mancini è intenzionato però a dargli ancora fiducia. Per due buoni motivi: il primo è che Belotti non sta benissimo (affaticamento muscolare), il secondo è che il tecnico azzurro confida che, prima o poi, Immobile esca dal suo cono d'ombra. Se lo facesse nel gran finale sarebbe un'ottima cosa. L'unico limite di questa Italia è infatti quello di non avere un centravanti che faccia fino in fondo il suo mestiere.
Segnano tutti, e questo è un elemento positivo, ma poter contare su un attaccante che sposta gli equilibri come Lukaku (criticato anche lui in Belgio!) o Hurry Kane dà sempre una certa sicurezza.
Con la Spagna non dobbiamo aver timori. Anche se ha un gioco simile al nostro (molto possesso palla, fitta rete di passaggi), l'Italia è stata finora di un'altra categoria. Va bene tenere la palla, ma anche per farne qualcosa di utile: gli azzurri sono stati capaci di verticalizzare le azioni, di passare rapidamente tra le linee di gioco degli avversari. La Spagna è invece molto più macchinosa. Tanti passaggi, tanto titic-titoc, ma poca sostanza.
Orfano di Xavi, Iniesta e compagnia, il c.t. Enrique ha dovuto fare di necessità virtù impostando un nuovo ciclo con giovani di grande talento ma ancora grezzi. Noi abbiamo un palleggio superiore e soprattutto una maggiore velocità. Busquets resta il loro architrave, ma quando dialoga con Kole, altro elemento importante in costruzione, non è come se dialogasse con Verratti e Jorginho. I nostri due play sono di un livello più alto. Hanno più esperienza. Più talento.
Anche in difesa l'Italia è più strutturata: lo si è visto proprio col Belgio dove, oltre alle parate di Donnarumma, sono venute fuori le consolidate qualità di Chiellini e Bonucci, sempre utilissime quando si sente il rumore delle spade. Come numero di gol realizzati siamo quasi in parità (Italia 11, Spagna 12) ma come reti subìte la differenza è a favore dell'Italia (2 contro 5 della Spagna). Tirando le somme, anche qui siamo in vantaggio.
Il nostro limite, almeno finora, è che segniamo poco rispetto a quanto costruiamo. Questo ci costringe a un surplus di lavoro che, alla lunga, può sfibrare. Ma la panchina azzurra ha ottime alternative, come ha già dimostrato quando serve. Locatelli, Pessina e Berardi non sono delle riserve. Sono ottime alternative che, in una partita bloccata, fanno saltare gli equilibri.
Ultimo particole: sulla panchina spagnola c'è Luis Enrique, c.t. “vertical” che avendo allenato la Roma conosce bene il nostro calcio. È un ottimo allenatore che non si piega ai compromessi. E infatti dopo 10 mesi l’hanno fatto scappare da Trigoria. «Lo avevamo scelto per la sua visione della vita e del calcio. Studia e ama i libri...», disse l’allora consulente giallorosso Franco Baldini. Come Mancini, non bada solo al risultato, ma anche al gioco e alla qualità. Anche lui nel calcio è un “visionario”. Meglio non sottovalutarlo.
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