Letteratura

Jack Kerouac, “Il mare è mio fratello” - ma ci sono cose che contano di più”

Se l’autore di “On the road” fosse stato ancora vivo avrebbe compiuto cento anni

di Marco Onnembo

(Leemage via AFP)

2' di lettura

Poeta, scrittore, cantore dell'inquietudine di almeno due generazioni. Fosse stato ancora vivo avrebbe compiuto cento anni (il 12 marzo). Ma è quasi impossibile pensare che a Jack Kerouac sarebbe piaciuto vivere così a lungo. Perché “contraddizione” è il sostantivo che lo descriveva meglio. E perché solo le cose che hanno valore finiscono presto.

Eppure, Kerouac è stato uno degli scrittori più importanti dell'America contemporanea e, soprattutto, uno dei padri fondatori – al pari di Ginsberg e Burroughs – della beat generation, il movimento culturale nato a New York a metà degli anni ’40 e che a San Francisco e Parigi troverà i suoi luoghi d’elezione.

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La sua opera più famosa, il celeberrimo On the road , è stato il manifesto di chi dal secondo dopoguerra, cercava una visione che superasse gli stereotipi di cui era ricca la provincia americana. La stessa da cui anche lui, nato a Lowell, cittadina del Massachusetts, proveniva. E dalla quale voleva fuggire per poi farvi ritorno, per trovare una casa pulita e le premure della madre.

Contraddizioni

Contraddizioni, appunto. Come quella di chi racconta il viaggio come metafora della vita, ma è privo della patente: il più autorevole dei beatnik non sapeva guidare. Insomma, sono esistiti due Jack. Il primo rifiutava le convenzioni sociali, ricercava la libertà, si ribellava alla morale (attraverso l’arte e l'uso di alcol e droghe). L'altro era un cattolico praticante, favorevole alla guerra in Vietnam e per il quale beat significava beato.

Poeta jazz

Kerouac, che si autodefiniva poeta jazz (fu influenzato da Charlie Parker e Count Basie), scriveva le sue opere usando un rotolo di carta per telescriventi “per non alterare” – diceva – “il flusso dei pensieri”. Quella “prosa spontanea” diverrà il suo X factor e avvicinerà il ritmo della sua scrittura a quello dello stile bebop. Amato dai lettori, odiato dalla critica, Ti-Jean – come era chiamato da bambino - è considerato il precursore del movimento hippy, anche se rifiuterà ogni accostamento ai gruppi pacifisti degli anni sessanta.

In Italia, le sue opere furono conosciute grazie a Fernanda Pivano che nel 1966 lo portò a Milano e a Napoli per una serie di conferenze. L'unico ricordo rimasto di quegli incontri fu il suo perenne stato di ebbrezza. Kerouac (che ebbe una figlia, Jean, morta di stenti a 44 anni e di cui lo scrittore non volle mai sapere nulla), probabilmente non ha avuto “eredi”. Ma le tracce di quell'esperienza, nelle sue parole, sono ancora vive: “Essere felici va bene – scriveva ne “Il mare è mio fratello” - ma ci sono cose che contano di più”.


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