Jamie Dimon for President? Lui smentisce. Ma incontra i democratici moderati
Il Ceo di JP Morgan aveva di recente riacceso voci su un suo possibile ingresso in politica alludendo al desiderio un giorno di servire il Paese
di Marco Valsania
I punti chiave
6' di lettura
Jamie Dimon for President? No, o almeno non ancora. Dimon cancella ogni ambiguità: assicura oggi di non perseguire ambizioni politiche, di non cercare in particolare candidature elettorali nei ranghi del partito democratico. Il chief executive della principale banca americana, di recente salito nuovamente alla ribalta quale salvatore di istituti di credito in crisi, ha incontrato ieri un gruppo di deputati democratici moderati, parte di una coalizione battezzata New Democrat Coalition che vanta cento esponenti del partito.
Un meeting che aveva rilanciato le voci su possibili svolte dopo che per anni l'alto dirigente ha flirtato con un coinvolgimento diretto in battaglie nelle urne o in poltrone di governo. Ma per adesso un suo ingresso in campo, in qualunque modalità, rimane un miraggio. «Non ci sto affatto pensando», ha risposto secco a chi gli chiedeva se stesse considerando una corsa per la Casa Bianca. «Non so perché devo ancora una volta rispondere a questa domanda». A rafforzare il diniego, la stessa banca ha emesso una presa di posizione che smentiva simili progetti da parte di Dimon.
Un lungo corteggiamento
La ragione per la domanda, in verità, c'è. Da quando nel 2018 dichiarò che avrebbe potuto sfidare Trump per la presidenza, per poi ritrattare e dirsi pentito di quella uscita pubblica. Non solo: sotto Barack Obama era stato tra i papabili per la poltrona di Segretario al Tesoro, sempre senza esito.
Cuore democratico
Tra le sue dichiarazioni che hanno destato scalpore e tradito il suo interesse per la politica, una aveva riassunto così la sua ideologia fondamentalmente moderata: cuore democratico, cervello repubblicano. E di recente non ha nascosto, nuovamente, di immaginare in futuro di poter servire il Paese. Non è neppure escluso che alcuni notabili del partito democratico possano auspicare di avere Dimon come asso nella manica fin dalle prossime elezioni, anche per un sostegno solo indiretto e di credibilità delle loro politiche economiche. Oppure, per quanto l'ipotesi appaia fantascienza, qualora la candidatura del presidente uscente Joe Biden dovesse complicarsi.
L'incontro con i deputati
L'incontro con i deputati, di sicuro, ha discusso un'agenda economica di alto profilo. «Stiamo parlando di come far crescere la nostra economia e come renderla più prosperosa per tutti», ha affermato a margine del meeting. Il mese scorso Dimon era inoltre stato tra i dirigenti bancari che avevano incontrato il leader democratico del Senato Chuck Schumer per discutere l'emergenza del tetto del debito e di rischi di default del Paese.
Alto profilo
E a Dimon non difetta l'alto profilo. Quest'anno ha ancora una volta giocato un ruolo cruciale da gran salvatore della finanza: il rischio di debacle delle banche regionali. Miliardario e uomo d'affari, guida JP Morgan dal 2005, il top executive più longevo nel settore è intervento due volte nel caso First Republic Bank, in coordinamento con il governo: prima ha guidato una cordata di istituti che ha depositato 30 miliardi nella banca per tamponare la fuga di depositi. Poi, quando questo non è bastato, ha rilevato direttamente gran parte delle sue attività, con la garanzia delle authority di coprire potenziali perdite.
Deja vu
E' un ruolo che Dimon aveva oltretutto già svolto nella passata grande crisi finanziaria del 2008. Allora aveva rilevato due colossi al cuore del terremoto, Bear Stearns e Washington Mutual. Aveva poi espresso qualche rimorso, affermando quanto fosse stato complesso assorbire quelle aziende. Ma ciò non gli ha impedito di tornare alla ribalta nei panni di cavaliere bianco del sistema. Con un interesse, sottolineano i più: JP Morgan si conferma e rafforza nel ruolo leader, di più grande e influente banca statunitense.
Un nuovo John Pierpoint?
E' una posizione, quella di Dimon, che ha radici nella storia e forse la ripete. Il leggendario finanziere John Pierpoint Morgan, che diede nome e natali al gruppo, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo capitanò il consolidamento e modernizzazione industriale del Paese, dall'acciaio all'energia elettrica. E prese di petto la grande crisi passata alla storia come il panico del 1907, una spirale di manipolazioni dei mercati, New York Stock Exchange che dimezzò il suo valore, fughe dalle banche e grave recessione: organizzò una coalizione della finanza che si incaricò di fatto di salvare il sistema monetario americano dallo spettro di un vero e proprio collasso. E' da allora, concordano molti storici e esperti, che il leader di un singolo gruppo può vantare un simile influenza sul sistema finanziario, con cappello da statista. Fino, appunto, a Jamie Dimon.
Dalla Grecia a New York
Ma chi è Dimon? Ha superato un tumore alla gola nel 2014 e un intervento d'emergenza al cuore nel 2020. Il suo patrimonio è stimato in almeno 1,8 miliardi, nell'elite degli amministratore delegati di banche davvero miliardari. Nato a New York, da una famiglia di broker azionari con radici greche (nome originale Papademetriou), ottenne una laurea di psicologia e economia alla Tufts University uno dei suoi lavori, sui merger della finanziaria Shearson, finì sul desk di Sandy Weill, che lo assunse per un'estate, un rapporto che sarebbe fiorito in anni successivi. Dopo la laurea lavorò per Boston Consulting e poi entrò alla Harvard Business School. Nelle pause del programma lavorò a Goldman Sachs e nel 1982 ricevette il suo Mba. Fu allora che Weill lo convinse ad accettare meno soldi da Wall Street peer unirsi a lui ad American Express con promesse di una carriera più interessante.
La partnership con Weill
Quando Weill lasciò Amex nel 1985, Dimon lo seguì in varie avventure, diventando direttore finanziario a 30 anni della Commercial Credit che Weill aveva rilevato. Assieme, con una serie di fusioni, diedero di fatto vita a Citigroup. Dimon lasciò però nel 1998 dopo un apparente scontro con Weill, tra voci che avrebbe resistito una promozione della figlia del finanziere. Dimon era però solo agli inizi. Nel 2020 divenne Ceo di Bank One, la quinta banca americana, e quando JP Morgan si fuse con queste nel 2004 fu direttore operativo e generale del nuovo gruppo. Un anno dopo era Ceo e nel 2006 anche presidente. JP Morgan era già grande, con 1.100 miliardi in asset e il 10% dei depositi nel Paese, con una trattoria di crescita e acquisizioni di decine di società finanziarie (e non solo) minori lo divenne sempre più.
Dal business alla politica
Con il business crebbe anche il ruolo politico e la rete di legami con Washington. Il grande momento arrivò sotto la presidenza Obama. Voci circolarono insistentemente che era candidato alla poltrona di Segretario al Tesoro, cosa che non si avverò. Obama però lo complimentò apertamente per il suo ruolo nella crisi del 2008 e lo additò quale esempio per la gestione responsabile e efficace di JP Morgan. Durante le primarie del 2020 Dimon lamentò l'assenza di un forte candidato pro-business nel partito, suggerendo che avrebbe potuto anche considerare di scendere in campo ma di ritenere di non essere sufficientemente popolare.
Il capitalismo degli stakeholder
Il ruolo di statista se lo ritagliò con molteplici iniziative, a volta anche in risposta a critiche. Quando JP Morgan finì nel mirino per il sequestro di case di militari in servizio in difficoltà con il mutuo, fondò un programma con undici aziende per l'assunzione di centomila veterani. Quando la città di Detroit finì in bancarotta nel 2013, anche a causa di speculazioni dell'alta finanza, JP Morgan si impegnò ad un rilancio della città. Noti sono i suoi interventi su temi cali da immigrazione a istruzione e cambiamento climatico, con posizioni moderate. E ha lavorato per rafforzare la lobby corporate della Business Roundtable, fino ad essere uno dei padrini della riforma dello Stakeholder Capitalism, di un capitalismo più socialmente responsabile che promuove l'idea di favorire assieme gli azionisti, le comunità, dipendenti e consumatori.
Controversie
Non sono tuttavia mancati nemmeno i passi falsi, che potrebbero tenerlo lontano dallo scendere davvero in campo in politica anche in futuro. Su tutti nel 2012 le colossali perdite da 6,2 miliardi nello scandalo della cosiddetta London Whale, su scommesse in derivati rischiosi nella sua sede di Londra. Un rapporto del Congresso dopo nove mesi di indagini concluse che Dimon non era stato trasparente con autorità e investitori. Oggi Dimon è nel mirino anche per i rapporti di JP Morgan con il finanziere Jeffrey Epstein , suicida dopo una condanna per abusi e traffico sessuale.
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