praga 16 gennaio 1969

Jan Palach, un corpo per svelare la «fragilità» del totalitarismo

di David Bidussa

(Afp)

2' di lettura

Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan Palach (21 anni, era nato nell’agosto 1948) si reca in Piazza San Venceslao, al centro di Praga, si ferma ai piedi della scalinata del Museo Nazionale, si cosparge il corpo di benzina e si appicca il fuoco con un accendino. Rimane lucido per tre giorni in agonia. Muore il 19 gennaio, cinquanta anni fa. Si dà fuoco per protesta: per rivendicare il diritto alla parola, il diritto al dissenso. Ma soprattutto per dire al mondo che non è vero che «l’ordine regna a Praga» dopo l’arrivo dei carri armati dei paesi del Patto di Varsavia, i sovietici prima di tutto, il 21 agosto del 1968. L’invasione aveva segnato la fine della “Primavera di Praga”.

L’autunno a Praga era cominciato subito già al mattino di quel 21 agosto, per quanto a differenza di quanto era accaduto 12 anni prima a Budapest, nell’ottobre 1956, a Praga si erano viste le folle di giovani circondare i carri armati invasori. Ma la normalizzazione era poi avvenuta, rapida, veloce. La convinzione, a differenza di dodici anni prima in Ungheria, era che alla normalizzazione occorreva rispondere testimoniando che l’afflato di libertà nasceva dalla consapevolezza che società libera è quella realtà in cui si dà la possibilità di scelta politica. Vaclav Havel l’aveva scritto il 4 aprile 1968: solo la presenza di un secondo partito in opposizione al partito di governo poteva garantire dell'esercizio della libertà.

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Per questo la scelta di sacrificio e di martirio di Palach (altri seguiranno il suo esempio nei giorni successivi) non si sostanzia nell’atto terroristico, né nel gesto dimostrativo comunque volto a uccidere nemici. A differenza dell'uomo-bomba, Jan Palach trasmette un messaggio diametralmente opposto. I l suo messaggio è: il mio corpo è più forte del tuo potere, e io mi riprendo la mia libertà dimostrando che il tuo totalitarismo è fragile.

Nella dimensione dell'atto estremo spesso abbiamo sottovalutato questa forza, ma essa marca una differenza, rispetto all'uomo bomba dei nostri giorni che fa uso del suo corpo. Nel gesto di Jan Palach non c’era odio né culto per la bella morte. C'era, invece, molta vita, e una diversa modalità di essere opposizione: consisteva nel non piegarsi al nemico e all'oppressore, ma di trovare anche in condizione di minoranza, e di sconfitta, lo spazio e le forme per rivendicare una propria irreducibilità a non sottomettersi. La stessa che Etty Hillesum rivendica nelle sue lettere sulla soglia della morte verso Auschwitz: non soggiacere all'odio, percepito come il segno della vittoria definitiva del proprio oppressore.

Jan Palach
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