Juncker vuole un euro che competa nel mondo con il dollaro
di Riccardo Sorrentino
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Euro moneta internazionale? Conviene davvero? Il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha lanciato la sua proposta. L’Unione europea, ha detto, paga l’80% delle sue importazioni di energia in dollari Usa, ma solo il 2% di questo import è venduto dagli Stati Uniti. «Cambieremo tutto questo. L’euro deve diventare uno strumento attivo di una nuova Europa sovrana».
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L’esorbitante privilegio
Juncker, in questo modo, affianca di fatto l’Unione europea ai molti paesi che, di tanto in tanto, intendono “punire” gli Stati Uniti ridimensionando quello che l’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, all’epoca ministro delle Finanze, definì l’«esorbitante privilegio» (espressione forse suggerita dall’economista Jacques Rueff): il vantaggio, tra l’altro, di essere al riparo da qualunque crisi della bilancia dei pagamenti. Tutti gli altri paesi - e per un’economia povera o emergente può essere costoso - devono acquistare dollari per importare, per esempio, materie prime. Per l’Unione europea, che ha dimensioni comparabili a quelle degli Usa, un passo del genere significherebbe però non aumentare la propria sovranità, ma cercare di sostituirsi o comunque di erodere l’egemonia Usa.
Il ruolo «neutrale» della Bce
Rafforzare il ruolo internazionale dell’euro significa - e fonti dell’Unione europea lo hanno confermato al Financial Times - invitare la Banca centrale europea a promuovere l’uso della moneta comune. La Bce, però, ha da sempre un orientamento diverso. Riconosce che l’euro ha ereditato dal marco tedesco un discreto ruolo internazionale, o più precisamente regionale; analizza annualmente, con un rapporto dedicato al tema, quanto la moneta comune sia usata come valuta di riserva; ma non intende «né disincentivare né sostenere» un ruolo internazionale.
Il dilemma di Triffin
Il motivo è semplice: «Non avrebbe avuto senso creare l’euro e poi sottoporre la politica monetaria a fattori esterni e non a quelli interni», ripete da anni la Bce. Trasformare la propria moneta in una valuta di riserva internazionale comporta infatti molti problemi. Sono riassunti nel “dilemma di Triffin”: semplificando, quel ruolo imporrebbe a Eurolandia di aumentare l’offerta di euro per permettere agli altri paesi di avere riserve e pagare le importazioni nella valuta comune. Il risultato è un deficit delle partite correnti e uno strutturale indebitamento con l’estero. Esattamente come è avvenuto alla Gran Bretagna prima e agli Stati Uniti poi.
L’«obbligo esorbitante»
In un discorso nel 2015 a Beirut Benoît Cœuré, componente del board della Bce, parlò così di «obbligo esorbitante», che comprende tra l’altro il ruolo di garantire la stabilità del sistema internazionale nei momenti di difficoltà. In quell’occasione Cœuré - pur confermando la “neutralità” della Bce - spiegò che le istituzioni europee potrebbero incentivare, ma solo indirettamente, un maggior uso internazionale dell’euro. Come? Completando le riforme dell’area monetaria: il maggior uso della valuta comune sarebbe la misura della «fiducia del mondo» in Eurolandia e la sua moneta. Un obiettivo, questo, verso il quale la Bce «sicuramente non è neutrale».
La proposta del Bancor
La discussione sulla valuta internazionale prosegue dalla fine della Grande recessione. L’ex governatore della Banca del Popolo cinese, Zhou Xiaochuan, propose nel 2009 - per ridimensionare l’egemonia americana, liberandola così dei costi a essa associati - di utilizzare come valuta di riserva i diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale. L’idea fu poi fatta propria, con alcune modifiche, dallo stesso Fmi che propose nel 2010 la creazione del Bancor (dal nome della valuta proposta da John Maynard Keynes durante le trattative per Bretton Woods).
Un euro sempre meno internazionale
L’euro, in ogni caso, ha già un ruolo internazionale «determinato principalmente dalle forze di mercato», nota il presidente della Bce Mario Draghi nell’introduzione del rapporto annuale. La misura adottata dalla Banca centrale europea per misurare il suo peso nel mondo è però in calo costante dal 2003: a tassi di cambio costanti è passato da un massimo appena superiore al 27% del totale fino al di sotto del 22%. D’altra parte, l’euro è usato per il pagamento del 57% delle esportazioni di beni di Eurolandia e per il 45,5% delle importazioni. Percentuali che salgono rispettivamente al 62,8% e al 52% nei servizi. L’Italia, in particolare, usa l’euro per l’82,6% delle sue esportazioni di servizi e per il 62,1% delle sue importazioni (mancano invece dati recenti sui beni). Cifre ben lontane da quelle relative al solo settore dell’energia.
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