A tavola con

Katia Bassi: «Supercar elettriche, una nuova industria e una nuova cultura»

La managing director di Silk-Faw, chiamata a costruire - fra l’Emilia-Romagna e la città cinese di Jilin, nella Manciuria meridionale - un pezzo di futuro dell’automotive industry

di Paolo Bricco

 Katia Bassi ha una laurea in Scienze Politiche a Milano e una in Giurisprudenza a Pavia. Dopo diverse esperienze professionali, oggi è

6' di lettura

«Mi rendo conto che, qui a Reggio Emilia, sta accadendo una cosa che, prima e altrove, non è mai successa. Creare supercar estreme e auto di lusso con la tecnologia dell’elettrico significa pensare, elaborare e costruire un nuovo modello industriale e una nuova cultura d’impresa. L’impatto di questa tecnologia sul modo di fare macchine è così radicale e pervasivo da imporre un totale mutamento di paradigma. La mia consapevolezza, su questo, cresce ogni giorno. Stiamo fondando una industria».

Katia Bassi - managing director di Silk-Faw, la società di proprietà per l’85% dell’imprenditore americano Jonathan Krane e per il 15% del gruppo cinese statale Faw - è una persona misurata. Sa di confrontarsi con un passaggio essenziale del nuovo capitalismo manifatturiero internazionale. Ma pronuncia ogni parola in maniera naturale, senza astuzie o freddezze, senza minimizzazioni ipocrite o esagerazioni retoriche. Non ha né i narcisismi trattenuti dei dirigenti d’azienda né le ossessioni cieche degli imprenditori, anche se adesso è nella particolare condizione intermedia di chi, fra l’Italia e la Cina, ha l’incarico di sviluppare una impresa da zero. Bassi è - per track record, carisma e attitudine - una delle migliori manager del nostro Paese che, soltanto in un piccolo mondo antico a totale predominio maschile, tendenzialmente gerontocratico e non di rado basato sulle ubbidienze, non aveva ancora fatto la capo-azienda.

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Intorno a noi, i camerieri del Canossa corrono veloci portando tagliatelle e cappelletti, puntine di vitello e arista di maiale e tutto quanto possa uscire dalla cucina di uno dei ristoranti storici di Reggio Emilia, un pezzo di quella Italia che è in grado di sorridere della mania collettiva degli chef stellati e delle tavole imbandite trasformate in set per le tv e i social media.

Prima pietra a Gavassa

«All’inizio di aprile - spiega - poseremo la prima pietra della fabbrica. Sarà nel Comune di Gavassa, vicino alla stazione per l’alta velocità ferroviaria di Reggio. Ora, qui, siamo in 60. A giugno assumeremo altri 160 specialisti». Bassi ha una storia personale particolare. Ora deve costruire - fra l’Emilia-Romagna e la città cinese di Jilin, nella Manciuria meridionale, dove sorgerà un impianto gemello rispetto a quello italiano - un pezzo di futuro dell’automotive industry: in Italia ci saranno l’ingegneria, la progettazione e il design e, poi, le produzioni della S9, una hypercar ibrida in 400 esemplari da due milioni di euro l’uno, e della S7, una supercar elettrica a cui si aggiungerà un Suv sempre elettrico. La componente progettuale e innovativa italiana si occuperà anche dei modelli che saranno prodotti in Cina.

Nella sua storia personale, la dimensione manageriale non è stata istintiva e immediata: «Sono nata a Pavia e sono cresciuta in un minuscolo paese, Locate di Triulzi. Mio padre Francesco dirigeva lo stabilimento di un terzista nel settore dell’argenteria. Mia madre Teresa era casalinga: non ha mai potuto lavorare, perché ha una forma grave di epilessia. Ho sempre desiderato diventare una magistrata impegnata a dirimere le questioni che riguardano i bambini e le bambine. Per questa mia vocazione originaria, dopo la prima laurea in scienze politiche a Milano, ne ho presa una seconda in giurisprudenza a Pavia. Poi, però, ho dovuto cambiare progetto. Ho rinunciato a entrare in magistratura. Io avrei voluto dedicarmi esclusivamente ai minori. E non sarebbe stato possibile. Per questa ragione, ho scelto di lavorare nelle aziende. Ho compensato facendo, nel mio tempo libero, volontariato a favore dei più piccoli e, anche, delle loro mamme, quando erano in difficoltà. Anche se, devo dire, uno dei grandi dispiaceri della mia vita è di non essere riuscita ad avere un figlio o una figlia».

Le sue parole di dolore restano nell’aria, come sospese. Katia ha una caratteristica che la distingue da tanti e da tante maschere degli affari. È educata, ma non finge. È chirurgica, ma non usa il bisturi contro gli altri. Si considera fortunata, ma non dimentica ciò che non funziona. E non lo seppellisce sotto i formalismi verbali né lo nasconde sotto gli abiti manageriali. Se fossimo a Milano, la nostra conversazione avrebbe triturato e polverizzato questi secondi di malinconia e sarebbe proceduta veloce nel racconto delle cose da fare e del “business”. Qui, invece, nel nostro dialogo il passaggio dal dolore alla serenità è, in qualche modo, facilitato dalla naturale accettazione delle cose e della vita che in Emilia si respira come l’aria.

Al Canossa il vociare felice della coppia di anziani del tavolo vicino si sovrappone al parlottare rapido in italo-inglese dei funzionari commerciali delle aziende meccaniche reggiane che vengono a discutere i contratti e a mangiare con i loro colleghi tedeschi: nonostante i tempi bui della pandemia e della guerra fra Europa ed Asia, sembra di essere in un locale degli anni 50 e 60, quando gli italiani pensavano di essere felici.

Per antipasto, senza quasi che noi lo si chieda, i camerieri portano quadretti di mortadella, piatti di prosciutto crudo, salame e coppa, parmigiano con una stagionatura di trentasei mesi in tocchi grandi come pietre. «Io assaggio soltanto il parmigiano, perché ho una intolleranza alle carni», spiega. In pochi istanti, compare sul tavolo anche una bottiglia di Lambrusco bollino rosso dei Fratelli Caprari.

Primi passi alla Ferrari

«Il primo giorno in cui sono stata chiamata alla Ferrari da Luca Cordero di Montezemolo – ricorda Katia, che dal 2001 al 2007 a Maranello è stata responsabile dei negozi, del licensing e del merchandising - sono arrivata davanti alla fabbrica prestissimo. Sono entrata in un bar. E ho cominciato a innervosirmi perché la barista, quando ho ordinato il tè caldo, era tranquilla, tranquilla. Lei si è accorta che fremevo. Mi ha sorriso e mi ha detto: “Signora, lei viene da Milano? Sì? Non si preoccupi. Vedrà che poi le passerà…”. Mi sono immediatamente innamorata di questi posti e di questa gente».

Arrivano in tavola i tortelli del Canossa. Lei li ha presi misti: metà alle erbe e metà di zucca. Io tutti di zucca. Affogati nel burro, con sopra una abbondante spolverata di parmigiano, sono buonissimi.

Katia - che, oltre a Milano, ha casa a Modena - ha una specializzazione basata sul posizionamento strategico dell’impresa e sulle politiche di marchio: due dei limiti tradizionali del capitalismo manifatturiero e finanziario italiano che, al di là dei racconti epicizzanti (e, in quanto tali, per definizione esagerati) delle intuizioni degli imprenditori, hanno spesso decurtato il potenziale delle nostre imprese. Dal 2009 al 2012 è stata, a Londra, amministratrice delegata di NBA Europe: «Il commissioner della NBA David Stern era riuscito a fare della Cina il secondo mercato dell’NBA. Mi chiamò per migliorare il posizionamento in Europa. Con le esibizioni in Europa delle squadre nelle capitali continentali e le partite di regular season a Londra e grazie al carisma di alcuni campioni, come il tedesco Dirk Nowitzki dei Dallas Mavericks e i fratelli spagnoli Pau e Marc Gasol dei Los Angeles Lakers e dei Memphis Grizzlies, siamo riusciti a diventare il secondo sport più seguito in tv dopo il calcio».

A fianco a noi passa il carrello dei bolliti, per il quale venivano apposta al Canossa Luciano Pavarotti, Rita Levi Montalcini e Dario Fo. Bassi, dopo l'esperienza da Ceo di NBA Europe (Ceo, appunto), è rimasta in Inghilterra dove, per cinque anni, è stata responsabile delle attività non core business della Aston Martin. Quindi, è rientrata in Italia alla Lamborghini dove ha contribuito a rendere il marchio più rotondo e inclusivo, con un effetto non soltanto di immagine, ma anche di identità e di ricadute dirette sulle vendite, portando gli acquisti fatti da donne dal 3% all’11% del totale.

Un altro mondo

«L’esperienza di Silk-Faw - spiega - è però completamente diversa. Non soltanto perché ho la responsabilità complessiva di un progetto per cui sorgeranno una fabbrica, un centro di ricerca e un palazzo degli uffici. Né soltanto perché qui abbiamo personalità, fra gli interni e i collaboratori, di grande rilievo: uno dei principali designer dell’auto come Walter De Silva e, poi, manager come Roberto Fedeli, Carlo Della Casa e Davide Montosi che hanno operato in posizione chiave di Ferrari, McLaren e Lamborghini. Ma anche perché, in un progetto che entro il 2028 vale un investimento da 1,3 miliardi di euro e che nei prossimi diciotto mesi prevede un finanziamento di 400 milioni, il grado di complessità e di ignoto che si deve affrontare nel software, nell’intelligenza artificiale e nei materiali è differente rispetto all’automotive industry tradizionale. Non è né più bello né più brutto. Non è più né interessante né più noioso. È semplicemente un altro mondo rispetto all’auto del Novecento, che conosco bene con le sue tradizioni professionali, le sue naturali rigidità organizzative e le sue comprensibili fisiologie industriali. Non è tanto un problema organizzativo, finanziario o di approvvigionamento delle forniture. È soprattutto una questione di mentalità».

In tavola portano a lei il creme caramel e a me la zuppa inglese. Per lei, niente caffè. In questa Emilia che ancora una volta ospita per l’Italia una ipotesi di futuro, mi tornano in mente le parole di Enzo Ferrari: «Il lavoratore delle nostri parti è molto intelligente e attivo. La nostra è, per di più, una terra di rivoltosi. Gente non tranquilla. Sangue e cervello sono qui uniti per fare tipi di uomini ostinati, capaci e ardimentosi, le qualità che ci vogliono per costruire bolidi». E, mentre ci salutiamo, mi viene da correggere mentalmente il Drake: uomini, ma anche donne.

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