L’abuso crescente di anglismi ostacola una corretta comunicazione
di Lorenzo Cavalieri *
5' di lettura
L’Academie Francaise, l'istituzione che difende il valore della lingua e della cultura francese nel mondo, ha lanciato un ultimo categorico allarme. L’utilizzo sempre più massiccio di anglismi nella comunicazione aziendale ed in quella istituzionale rischia di impoverire irreparabilmente la lingua (imponendo una metamorfosi strisciante della sintassi) e diventare un fattore di discriminazione per quelle fasce di popolazione (anziani e/o non scolarizzati) che rischiano di non capire.
Sappiamo benissimo che anche in Italia (forse ancora più che in Francia ed in altri Paesi dell’Ue) se per legge domattina si imponesse l’obbligo di eliminare parole e acronimi derivanti dall’inglese, nella maggioranza delle aziende e delle organizzazioni pubbliche bisognerebbe comunicare a gesti perchè ormai la maggioranza delle persone non sarebbe in grado di trovare il sinonimo italiano di espressioni come hacker, spoiler, soft skills, blokchain, pass, pipeline, benchmark, e così via.
È un dato di fatto che oggi due giovani italiani che parlano in italiano utilizzano una quantità enorme di termini inglesi o di italianizzazioni di termini inglesi. Ed è altrettanto un dato di fatto che oggi ci scandalizziamo, ma domani non potremo farlo più perchè dire “dissare” (mancare di rispetto) ci sembrerà perfettamente normale e comprensibile e non riconosceremo più l’origine americana di questo verbo. Del resto le lingue come organismi viventi si modificano. Se l’italiano non produce neologismi perchè “le cose nuove” arrivano dal mondo col loro nome in inglese e noi prendiamo quel nome nuovo così com’è, senza elaborarne una versione italiana, per forza di cose nel lungo termine si genererà una sostituzione linguistica.
Quando si parla di questi temi si tende naturalmente ad arrivare a considerazioni di tipo patriottico. Difendere la lingua significa difendere la cultura, la storia, l’identità, eccetera. Temi nobilissimi e importantissimi ma che forse non inquadrano al meglio la portata della sfida che gli anglismi stanno determinando soprattutto nel mondo del lavoro. Infatti non stiamo semplicemente assistendo all’affermazione dell’inglese come lingua dominante, ma stiamo assistendo alla generazione di una vera e propria neolingua in cui italiano e inglese si mescolano seguendo il criterio della soluzione comunicativa più immediata.
Se in un meeting (riunione), in una call (conversazione), in una mail (ehm…) una parola espressione del mondo globalizzato si impone perché comprensibile per tutti, quella parola pian piano soppianta tutte le alternative, tanto da lasciarle cadere in disuso e creando con il tempo una sorta di monopolio di significato: utilizziamo per esempio il successo della parola “confidente”, italianizzazione dell’inglese “confident”.
Se io oggi in ufficio dicessi ai miei colleghi “sono confidente” loro penserebbero che sono sicuro di qualcosa, che ho una visione ottimistica sull’evoluzione di qualcosa. Se l'avessi detto solo quindici anni fa mi avrebbero chiesto “Di chi?”, basandosi sul significato originario della parola in italiano. “Confidente” come italianizzazione di “confident” ha sostituito “fiducioso”, ma anche “ottimista”, ma anche “convinto”, ma anche “sicuro di sé”. In una logica economica una parola è riuscita nella neolingua a sostituirne almeno quattro. “Confidente” ha vinto.
Allo stesso modo “stress” ha avuto la meglio su “ansia”, “fatica”, “tensione”, “pressione”. Location ha sconfitto “luogo”, “sede”, “ambiente”, “dimora”, ecc. E sempre con la medesima dinamica la parola “tricky” in azienda sta cominciando a prevalere su “ingannevole”, insidioso”, “complesso”, “problematico”, ecc. Ci sarebbero decine e decine di altri esempi.
Tornando quindi al problema della “anglizzazione” denunciato orgogliosamente dall’Academie Francaise (e da anni sottolineato anche dalla nostra Accademia della Crusca) la sfida non è tanto la “diminuzione” dell’italiano, la ferita all’orgoglio della nostra cultura, ma è soprattutto la semplificazione che questa neolingua comporta, con la contestuale regressione delle nostre competenze linguistiche. In quest’ambito la parola semplificazione, di solito associata ad una valenza positiva, risulta invece preoccupante.
Per spiegare questo concetto bisogna partire dall’assunto che ogni parola è la parola perfetta per descrivere qualcosa. Più parole conosco più sono capace di essere preciso nella descrizione di qualcosa. Il lessico è come la risoluzione di una macchina fotografica. Se la risoluzione è elevata sarò capace di produrre immagini vivide e nitide.
Lo stesso succede per un manager che avendo la capacità di esprimersi in modo ricco e preciso sarà capace di rappresentare puntualmente le mille sottili sfumature del proprio ragionamento. Il beneficio di un lessico profondo non sta solo nella precisione delle nostre rappresentazioni, ma anche e forse soprattutto nella nostra capacità di comprendere “i toni di grigio” nelle parole di chi ci parla o ci scrive. La metafora dei colori ci aiuta molto da questo punto di vista. Se per me un pantalone può essere soltanto blu o azzurro perché non riesco a dare un nome ai tanti tipi di blu o di azzurro che esistono, il mio mondo diventa semplicemente più piccolo. Ed essendo più piccolo ho meno opzioni di comportamento, meno alternative decisionali, meno spazi di negoziazione.
Immaginiamo per esempio che il nostro collaboratore ci dica che il progetto non si può portare avanti perché non c’è più il “commitment” (altra parola in voga nella “neolingua business”) del cliente. Il collaboratore ha usato la parola “commitment” perché nel suo vocabolario è la soluzione più veloce quando bisogna descrivere il concetto di impegno. Se invece nel mio vocabolario ci sono più concetti associati alla parola “commitment” potrò chiedere al mio collaboratore se secondo lui si tratta di “scarso impegno”, o di “scarsa fiducia nel risultato”, o di “scarso impiego di risorse”, o di “scarsa motivazione”, o di “scarsa comprensione delle finalità del progetto”, ecc. Concetti tutti vicini tra loro ma non identici. Distinguerli con precisione significa scegliere la migliore strategia di gestione del problema.
Quello che invece accade se non riesco a vedere le sfumature di significato dentro la parola “commitment” è che sono costretto a fermarmi nella ricerca di interpretazioni (“Ok allora con loro non possiamo andare avanti”) e quindi di soluzioni (“E adesso che facciamo?”). In questo senso ogni parola in più nel mio vocabolario è una possibile porta che si apre e di conseguenza il manager che si esprime in un italiano bello e ricco è un manager più potente, nel senso che può fare più di altri.
Questo fenomeno diventa ancora più importante se consideriamo che lavoriamo nel mondo dell’intelligenza artificiale e dei chatbot. Se impoveriamo la nostra lingua e ci abbandoniamo alla neolingua “italenglish” il processo di sostituzione uomo-macchina sarà più facile e più veloce perché avremo scelto di giocare su un campo dove siamo sconfitti in partenza. Insomma cari manager, imparate l’inglese alla perfezione, ma quando conversate o scrivete in italiano siate impeccabili ambasciatori della bellezza e della potenza della nostra lingua, senza mediazioni e senza compromessi.
* Managing director della società di formazione e consulenza Sparring
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