Bce, l’addio di Draghi e il fuoco amico dei mercati
Anche l'alleato tradizionale del presidente della Bce esprime dubbi sull'efficacia del nuovo Qe e dei tassi negativi. I timori. Un sondaggio di Bank of America rivela che l'impotenza delle banche centrali è il secondo maggior rischio percepito dai gestori
di Morya Longo
3' di lettura
Non sono solo i falchi della Bce. Non sono solo i “soliti” tedeschi. Mentre Mario Draghi dà l’addio alla Banca centrale europea, dopo otto anni in cui ha evitato all’Europa una crisi che rischiava di degenerare, i dubbi sull’efficacia del suo ultimo bazooka monetario arrivano anche dal suo tradizionale alleato: il mercato. Fuoco amico di quegli investitori, gestori e banche d’affari che negli anni hanno più beneficiato della sua generosa politica monetaria.
Ora, in maniera non generalizzata ma neppure trascurabile, iniziano a nutrire almeno due dubbi. Uno: che il quantitative easing - cioè il pezzo forte della manovra varata a settembre - possa durare al massimo fino alla fine dell’anno prossimo, data la scarsità di titoli che la Bce può comprare. Due: che quel pacchetto di misure (inclusi i tassi negativi) sia ormai diventato pressoché inefficace. Se non addirittura controproducente. E questo, in un momento in cui l’economia frena, è il vero timore.
Impotenza delle banche centrali
Basta guardare il sondaggio di ottobre che Bank of America ha condotto tra i gestori di fondi di tutto il mondo per capirlo: se il principale rischio a loro avviso è la guerra commerciale tra Usa e Cina (lo segnala il 40% degli intervistati), il secondo rischio (al 13%) è proprio «l’impotenza delle banche centrali». Insomma: un discreto numero di investitori è convinto che le banche centrali, non solo la Bce, siano ormai inefficaci. Impotenti.
E guardando le aspettative di inflazione a lungo termine si ricava lo stesso scetticismo: da quando Draghi ha sfoderato il suo ultimo bazooka, l’inflazione media annua prevista per i prossimi 10 anni in Eurozona è scesa dall’1,22% al minimo storico toccato il 3 ottobre (1,11%), per poi risalire all’1,20% di ieri. Non un buon segno, dato che il bazooka di Draghi servirebbe proprio per far salire l’inflazione.
I motivi dello scetticismo
Dopo un decennio in cui le banche centrali hanno varato politiche estreme (come il Qe e i tassi sotto zero) il dubbio di alcuni è che oltre certi livelli queste misure non possano più produrre grandi effetti. «Solitamente quando una banca centrale taglia i tassi d’interesse la gente consuma di più, perché il risparmio rende meno, ma se i tassi vanno sotto zero questo effetto rischia di sparire - osserva Andrea Delitala di Pictet Am -. Se una persona sa che i tassi sono negativi, tende infatti a risparmiare di più per cercare di poter mantenere lo stesso tenore di vita in futuro».
Il concetto è espresso anche da Matt King, Credit products strategist di Citigroup che ha realizzato uno studio intitolato “Potranno mai i tassi negativi produrre qualcosa di positivo?”. King nota che se il tasso di risparmio dal 2004 al 2018 ha seguito l’andamento dei tassi (più salgono più la gente risparmia), dal 2018 l’equazione si è rotta: i tassi reali dei titoli di Stato europei sono scesi, ma il risparmio delle famiglie è aumentato. King commenta così: «I tassi sempre più bassi sembrano rendere la gente sempre più nervosa».
C’è poi un altro rischio, sollevato da Larry Summers, segretario al Tesoro Usa ai tempi di Clinton: la zombificazione delle aziende. Il senso è questo: se i tassi stanno bassi troppo a lungo, restano in vita anche le aziende più indebitate che fallirebbero in un mondo normale. Questo rende nel suo insieme il sistema industriale meno produttivo e abbassa la crescita potenziale dell’intera economia.
«Per vedere questo effetto serve tempo - osserva Delitala -, ma dopo 10 anni in cui l’economia è stata tenuta nella bambagia monetaria inizia a notarsi». A queste si sommano molte altre critiche, come gli effetti collaterali sulle banche e le potenziali bolle finanziarie. Così la sensazione dell’impotenza delle banche centrali si fa strada. Pochi giorni fa anche Morgan Stanley ha scritto che «l’impulso monetario ha diminuito gli effetti». E del resto è lo stesso Draghi a dire che ora servono politiche fiscali espansive.
Se l’infinito finisce presto
Vero è che senza questi stimoli la situazione sarebbe forse peggiore. Ma qui si inserisce l’altro timore: che il nuovo Qe senza scadenza (la Bce comprerà titoli per 20 miliardi al mese potenzialmente all’infinito) possa scontrarsi con la carenza di titoli di Stato da comprare e con i limiti che la stessa Bce si è posta. Gli analisti interpellati dal Financial Times ritengono che al massimo la Bce possa andare avanti fino a fine 2020. Poi non avrà più molto da comprare, a meno che non cambi le regole degli acquisti. Ma qui si entra in un territorio inesplorato. Toccherà a Christine Lagarde esplorarlo forse. O esplorarne altri. Per non lasciare il mercato con la sensazione che la prossima crisi ci troverà senza più munizioni.
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