L’agenda immediata del governo è difficile ma già definita
L’agenda economica del prossimo governo è largamente condizionata, almeno nel breve periodo, da un contesto dominato da fattori esterni all’Italia
di Giovanni Tria
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L’agenda economica del prossimo governo è largamente condizionata, almeno nel breve periodo, da un contesto dominato da fattori esterni all’Italia. Tre sono i fattori principali: la crisi energetica, l’inflazione, solo in parte derivante dalla restrizione delle forniture di gas determinata dalla guerra in Ucraina, e la progressiva stretta monetaria decisa dalla Bce, anch’essa condizionata dal contesto internazionale. Il quadro conseguente è quello di un rallentamento dell’economia con il rischio, non trascurabile, di recessione.
L’inflazione non è di origine interna, ma è il prodotto sia di un mutamento delle ragioni di scambio a livello globale, determinato da fattori strutturali, sia del mancato coordinamento internazionale tra le grandi economie per una uscita ordinata dalla crisi pandemica e dalle politiche monetarie e di bilancio ultra espansive.
L’aumento dei prezzi dell’energia, degli alimentari, delle altre materie prime e di prodotti intermedi è anche il frutto di un clima conflittuale internazionale, solo in parte dovuto alla guerra. La risposta delle principali banche centrali a una inflazione inaspettata, e mal interpretata, è stata quella di muoversi senza coordinamento. Ma ora la linea è tracciata. La Fed ha dato il via all’aumento progressivo dei tassi per frenare un’inflazione alimentata anche da un eccesso di domanda interna. La Bce non potrà non seguirla, al di là delle diverse caratteristiche dell’inflazione europea, per evitare una ulteriore svalutazione dell’euro che acuirebbe l’inflazione importata e determinerebbe il rischio di un esodo di capitali verso l’area dollaro. Se queste sono le condizioni di fondo, in questo quadro di grande complessità il governo ha una agenda già scritta per il prossimo futuro, nel senso che ha di fronte a sé tre compiti prioritari, e non tutte le variabili in gioco sono controllabili a livello nazionale.
Il primo compito è quello di continuare ad attuare il Pnrr, con gli aggiustamenti concordati con la Commissione europea che eventualmente si rendano necessari, al fine di sorreggere le aspettative degli investitori privati e dei mercati sulla crescita futura italiana, aspettative dalle quali dipende la sostenibilità del debito italiano.
Questo primo compito è particolarmente importante in una situazione nella quale lo sforzo finanziario a carico del bilancio pubblico sarà rilevante per affrontare il secondo compito immediato, cioè quello di governare e mitigare il conflitto distributivo generato dall’inflazione importata.
L’aumento dei prezzi delle fonti energetiche e delle altre materie prime e beni importati rappresenta, infatti, un costo non eliminabile per l’economia italiana. Il tema è come distribuirlo tra famiglie e settori produttivi senza che ciò avvenga attraverso una rincorsa tra prezzi e salari che comporterebbe il radicamento dell’inflazione. Quel che può fare lo Stato è regolare questo conflitto distributivo mediante la politica fiscale. Nell’immediato, soprattutto di fronte all’esplosione dei prezzi dell’energia, l’obiettivo è certamente quello di sostenere le famiglie a più basso reddito, anche per motivi di giustizia sociale, e aiutare le attività produttive a sostenere e distribuire nel tempo l’aumento dei costi.
Tuttavia, questa politica fiscale, pressoché obbligata, ha un costo molto pesante per il bilancio pubblico e, in presenza del mutato contesto di politica monetaria e di possibili crescenti tensioni finanziarie, non sarà possibile sostenerlo con debito aggiuntivo emesso a livello nazionale. Ciò significa che si deve agire sulla composizione del bilancio, dal lato delle entrate e dal lato della spesa. E qui si arriva al terzo compito immediato, quello di affrontare complessi e pazienti negoziati europei che riguardano sia azioni immediate sia temi strutturali. Le azioni immediate riguardano l’intervento comunitario sul mercato dell’energia e il contemporaneo varo di un fondo, alimentato da debito comune europeo, per sostenere gli sforzi finanziari nazionali di mitigazione dell’impatto dei prezzi dell’energia su famiglie e imprese.
Ma ciò che sta accadendo in Europa conferma che il problema strutturale europeo sta nell’assenza di una politica di bilancio a livello comunitario. Nel senso che non esiste una capacità fiscale centrale europea capace di intervenire in politiche di stabilizzazione accanto alla politica monetaria. È auspicabile, quindi, che il governo si ponga l’obiettivo non solo di negoziare con i partner europei le riforme delle regole fiscali, oggi sospese e di cui è in gestazione la riforma, ma di battersi anche affinché le istituzioni europee si muniscano di strumenti per una politica di bilancio comunitaria in grado di agire rapidamente per stabilizzare l’economia europea quando colpita da shock simmetrici di derivazione esterna, come quello che stiamo vivendo. Questo negoziato, che è cruciale per gli interessi italiani ed è contrastato dalla galassia dell’Europa del nord, implica creare ampie alleanze.
In conclusione, il prossimo governo ha di fronte un’agenda sostanzialmente già definita nei temi prioritari obbligati. Si tratta di un’agenda molto difficile da gestire, appunto per la complessità degli obiettivi interconnessi e per il contesto economico e geopolitico non favorevole.
Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari
al momento del consumo.
Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.
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