ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùIl business della ristorazione

L’alta cucina è ancora sostenibile ma occorre cambiare modelli

Le notizie che abbiamo letto nelle ultime settimane sui giornali hanno sicuramente spinto molti tra osservatori e addetti ai lavori a interrogarsi sul futuro dell’alta ristorazione in Italia e non solo.

di Antonio Santini

(IMAGOECONOMICA)

3' di lettura

Le notizie che abbiamo letto nelle ultime settimane sui giornali hanno sicuramente spinto molti tra osservatori e addetti ai lavori a interrogarsi sul futuro dell’alta ristorazione in Italia e non solo. Dalle inchieste sullo stato di salute di importanti ristoranti italiani alle storie di grandi chef costretti ad abbassare le saracinesche, sono molti quelli che si sono espressi contro un modello di impresa – a loro dire – insostenibile finanziariamente ed emotivamente. Quanto è giustificato tutto questo pessimismo? Siamo davvero sicuri che a non funzionare più sia un modello di cucina di altissima qualità e non lo siano, invece, solo alcuni esempi di ristorazione portati all’estremo?

L’insostenibilità c’è dove c’è poca propensione a risolvere i problemi. In pratica, a essere insostenibili sono le proposte e le soluzioni. Molti ristoranti l’hanno capito: sono sempre di più, infatti, quelli che hanno esteso il tempo di chiusura a due o tre giorni settimanali, oppure quelli che hanno ridotto le ore di lavoro giornaliere. Niko Romito, chef del Reale Castel di Sangro, ha raccontato recentemente di aver anticipato per i propri clienti l’orario della cena alle 19.30 per poter mandare a casa il suo staff alle 23 circa.

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Ricordiamo che il solo settore della ristorazione in Italia conta circa 300mila imprese e 1 milione di lavoratori, per un fatturato di 85 miliardi di euro e un valore aggiunto che si aggira intorno ai 40 miliardi. Se la vita in cucina e in sala richiede ritmi serrati e un lavoro intenso, preciso e scrupoloso, è pur vero che le vicende di cui abbiamo sentito molto parlare negli ultimi mesi rischiano di restituire un’immagine distorta dell’alta ristorazione, quella di qualità, e del messaggio culturale che questa dovrebbe veicolare. Mettono infatti un intero settore sotto la lente di ingrandimento, focalizzandosi però solo sugli aspetti negativi, tra cui il sacrificio e modelli di cucina portati all’estremo.

Si tratta del pensiero mainstream del momento. Non a caso, in un recente articolo pubblicato sul «New York Times», il critico gastronomico Pete Wells ha definito questa tipologia di ristoranti «overkill», incentrati cioè su una cultura dell’eccesso che si ritrova nel rapporto ormai sbilanciato tra il numero del personale e quello dei coperti, e nella sempre maggior quantità di tempo destinata alla ricerca e alle preparazioni. Se ci vogliono troppe persone per preparare un piatto, è facile comprendere come questo modello di ristorazione non sia effettivamente sostenibile. Il problema dunque è a monte. È nei modelli organizzativi, nella capacità di un imprenditore di saper gestire il proprio business in maniera oculata e accorta.

In un ristorante una visione imprenditoriale lungimirante è fondamentale tanto quanto l’offerta gastronomica e la piena consapevolezza delle risorse a disposizione. Tra queste, il tempo, che è tra quelle più importanti: cercare di ridurre le ore di impiego del personale e delle preparazioni è la strada da percorrere non solo per una migliore efficienza gestionale, ma anche (e soprattutto) per promuovere il benessere fisico e mentale dei dipendenti, favorendo un maggior equilibrio tra vita privata e lavorativa.

La chiave è proprio questa: i ristoranti devono essere portatori di un messaggio culturale che promuova i valori dell’eccellenza, della creatività, del benessere e della bellezza. Elementi intrinseci all’alta gastronomia che forse qualcuno ha dimenticato e che, invece, andrebbero trasmessi alle nuove generazioni. Abbiamo il difficile compito di offrire risposte concrete a chi si avvicina a questa professione.

Una responsabilità che comprende la sensibilizzazione sia dei giovani sia dei clienti. Ai primi, dobbiamo infondere l’amore per questo mestiere, che per sua natura porta spesso a sconfinare dalle logiche di lavori più “ordinari”, dai turni fissi e dai compiti prestabiliti, nel nome di ciò che intimamente muove chi ha scelto di fare questo nella vita: la passione.

Ai secondi, invece, dobbiamo offrire il nostro supporto in un percorso di consapevolezza su un maggior rispetto dei tempi a tavola e degli orari più consoni per la consumazione dei pasti. Così come va promossa una sensibilizzazione alla riduzione dello spreco, oggi più che mai indispensabile. Ecco come la ristorazione può essere davvero sostenibile, continuando a favorire l’incontro umano per eccellenza.

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