ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùDopo il vertice di Belem

L’Amazzonia protetta vale più di quella sfruttata

Mente si avvicina il punto di non ritorno, Paesi del Sud America ancora divisi sull’adozione di misure drastiche

di Roberto Da Rin

Incendi e deforestazione stanno mettendo a rischio le specie di vegetali e animali, soprattutto negli Stati di Mato Grosso, Maranhão e Pará (Foto Afp)

3' di lettura

Questa non è una leggenda: alcuni popoli indigeni della regione Amazzonica, tra cui gli Yanomami, quando si ammalano in forma grave, si affidano totalmente al “soffio umido” della foresta. È l’unica “terapia di guarigione”. La terra della foresta possiede Wixia, un “soffio vitale”, che è molto lungo. Quello degli esseri umani è corto: viviamo e moriamo velocemente. Se non viene disboscata la foresta non muore. Non si decompone.

Nello splendido libro “Lo spirito della foresta” di Bruce Albert, antropologo, e Davi Kopenawa, sciamano, edito da Nottetempo, si raccontano storie magnifiche, (non) fantastiche, che svincolano l’ecologia dalle scienze naturali e l’economia dalle scienze sociali. E si integrano in una forma-pensiero che mette fine alla divisione tra natura e cultura. Se non si prendono decisioni radicali, arriveremo inesorabilmente a quello che è stato definito il “punto di non ritorno”. È quello che indica «il passaggio in cui il bioma forestale può diventare savana in conseguenza di azione antropica». Ovvero, il primo passo verso la desertificazione dell’Amazzonia.

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Una completa incomunicabilità. I bianchi, secondo gli sciamani dell’Amazzonia, si ostinano a distruggere la foresta «facendo finta di volerla difendere con leggi che tracciano su utupa siki (carta, ndr) di alberi abbattuti». Se invece ascoltassero gli xapiri, gli spiriti della foresta, saprebbero tutelarla. Le parole di Davi Kopenawa descrivono un mondo magico, ma paradossalmente pragmatico, di chi abita l’Amazzonia da sempre, «di chi non ha mai distrutto chi dà da vivere».

Poche settimane fa si sono tenuti a Belem, in Brasile, i Dialogos Amazonicos, un mini summit che accoglie tutti i Paesi del Sud America (Brasile, Bolivia, Perù, Equador, Colombia, Venezuela, Guiana, Surinam) che ospitano porzioni più o meno estese di foresta tropicale umida. L’obiettivo è quello di promuovere gestioni condivise e scegliere posizioni concordate da proporre nelle sedi internazionali. Adottare provvedimenti immediati e drastici. Ecco, questo è il primo punto su cui si dividono i catastrofisti e i possibilisti.

Eppure, anche nel Brasile lontano dall’Amazzonia, vi sono ecologisti ed economisti che sanno entrare in sintonia ed empatia con gli indigeni, avanzando proposte concrete che dovrebbero spalancare orizzonti inesplorati: la monetizzazione. Uno dei paper di Mauro Mantica, economista che vive a San Paolo, rilancia le opportunità economico-produttive dell’Amazzonia, una foresta che ospita 39 miliardi di alberi di 16mila specie diverse.

Molti pensano che si tratti di una ricchezza inestimabile, ma chi ha provato a stimarla ci fornisce informazioni molto preziose: un recentissimo studio della Banca Mondiale ha cercato di calcolare quello che potremmo definire come il Pil annuo della foresta amazzonica ed è arrivato alla incredibile cifra di circa 317 miliardi di dollari, ovvero quasi il 20% dell’intero Pil brasiliano del 2022, equivalente al Pil dell’Austria. Questo valore corrisponde a sette volte i potenziali profitti che deriverebbero da diverse attività di esplorazione delle risorse economiche della regione.

Ciò significa che proteggere e conservare la foresta amazzonica vale circa 317 miliardi di dollari all’anno, mentre estrarne le risorse e coltivarne la superficie ne produrrebbe “solo” 45. Il meccanismo di calcolo è questo: ricordiamoci innanzitutto che il Protocollo di Kyoto, stipulato nel 1997, ha creato i “crediti di carbonio” con l’obiettivo di diminuire i gas che producono l’effetto serra e di conseguenza gravi effetti sul clima. I “crediti di carbonio” rappresentano la “non emissione” di anidride carbonica nell’atmosfera e sono una sorta di “moneta alternativa” che aiuta i Paesi più inquinanti a raggiungere le proprie mete di riduzione. A ogni tonnellata di CO2 non emessa si genera un “credito di carbonio”, che può essere commercializzato con i Paesi che non riescono a raggiungere la propria meta di non emissione.

A febbraio 2023 il valore di un credito di carbonio, nel mercato regolamentato, ha superato per la prima volta il tetto dei 100 euro. Implacabile l’analisi di Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino, naturalizzato francese. Autore di vari saggi, tra cui «La singolarità del vivente» (2021), pubblicato da Jaca Book: «La parola “libertà” ha un’implicazione concreta, per me significa difendere ciò che minaccia la vita sul pianeta; il capitalismo è arrivato a un punto di sviluppo folle, la sua è una vittoria di Pirro in cui, anche chi vince, perde».

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