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L’amore ossessivo non ci salva dalla ferocia della storia

di Serena Uccello

“Un marito” di Michele Vaccari: l’amore assoluto e la furia della storia

5' di lettura

Un uomo e una donna, una coppia che si costruisce per bastare a sé stessa. Una coppia “particolare”, straordinariamente contemporanea, ma allo stesso tempo d’altri tempi. Vive in un quartiere che, con un vecchio lessico, un tempo si sarebbe detto “operaio”, il quartiere Marassi di Genova, e da lì non si è mai mossa. Difficile crederlo per due cinquantenni di oggi, ma è così. Mai una vacanza per Patrizia e Ferdinando, i due protagonisti di Un marito di Michele Vaccari (Rizzoli, pp. 233, 20 euro). Un quartiere, scelto, che diventa rifugio, che diventa prigione (volontaria). Una coppia di altri tempi, dunque, che indossa la flanella sotto il camice-grembiule: i due gestiscono una rosticceria, che è la loro creatura. Senza figli, la vita è ordinata attorno a loro amore e attorno alla rosticceria.

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Vaccari racconta che il primo pensiero, quello che poi sarebbe diventato l’idea e poi la storia, l’ha avuto dopo aver visto “Amour” di Michael Haneke. E che a rafforzare l’ispirazione si è unita la conoscenza della cronaca, cronaca tremenda in questo caso, cioè la storia di Olindo e Rosa (come dimenticare la strage di Erba). Dei protagonisti di Haneke, Patrizia e Ferdinando hanno la tenerezza che cresce e si nutre nell’isolamento, di Olindo e Rosa, la capacità di vivere un amore assoluto che non ingloba niente, che nulla vede, nulla considera oltre alla vista dell'amato, dell'amata. Ferdinando e Patrizia temono il cambiamento.

A temerlo è, soprattutto, in un primo momento Ferdinando: «Quando vede seni giovani girargli intorno, Ferdinando chiude gli occhi, pensa al calcio, si ripete gli ordini della merce, abiura alla sua natura animale: invece che lasciarsi prendere da quel sopravvento che vuole mettersi tra lui e Patrizia per mostrargli che là fuori è pieno di ragazze carine, di possibilità inesplorate, di corpi carichi di risposte a domande che ha lasciato volutamente in sospeso, ha soffocato i suoi istinti, mettendo il bene supremo, la sua relazione incredibile con Patrizia, davanti a tutto, reprimendo in fondo alla coscienza ogni pensiero deviante, schiacciandolo come in una formina da spiaggia. Questo gli ha permesso di tenere compressa e livellata la moltitudine di granelli microscopici, spesso fastidiosi, di cui è costituita la sua indole, senza che nessuno scappasse dallo stampo, tenendo premuto a lungo, rimandando il momento di dare ascolto agli ormoni in subbuglio, aspettando l'attimo in cui sarebbe stato abbastanza certo che nulla avrebbe potuto mettere a rischio quell'idea di amore che ha lottato per non sciupare, per permetterle di restare preziosa, come un bimbo con la sua stella di sabbia che ha paura di girare per vedere se si sia compattata per bene: la formazione perfetta di una mezza età coesa e indistruttibile».

Poi, come sempre accade nelle coppie che ci si scambia i panni e gli atteggiamenti, è Patrizia ad avvinghiarsi con tutte le sue forza all'immutabilità.
«Ti ho sposato per questo. La stella che ci ha protetto finora, non voglio che si spenga. O che tutti scoprano se esiste o meno. Da giovane, mi piaceva farmi le domande, credere in una vita migliore, restare nel dubbio. Poi ho iniziato a viverci nella vita migliore e ho deciso che dagli interrogativi, dagli “e se”, soprattutto, bisogna scappare perché inquinano la felicità che già c'è e di cui dobbiamo essere appagati, anche quando non lo siamo. I dubbi, le novità, gli imprevisti che senti in giro siano il senso dell'esistenza, per me la corrodono, la uccidono, mettono in ombra il bello che avevi e che avevi deciso lo fosse più di qualsiasi altra cosa al mondo».

Così quando Ferdinando è deciso a rompere, o meglio ad interrompere ,solo per una breve vacanza, il “meccanismo”, l'ingranaggio perfetto, Patrizia resiste. Poi cede, poi ha di nuovo paura. E i suoi timori sono così immotivati all'apparenza che nella loro irrazionalità hanno quasi il sapore della premonizione. «Parlo del viaggio. Ho paura ad andarmene. Non va bene. Dovevamo darci un tempo».

Ancor di più se si considera che il viaggio, che nel loro caso diventa il Viaggio, è solo una microscopica distanza, Genova-Milano, qualche chilometrico che diventa invece una distanza enorme a segnare la rottura: prima della tragedia, e dopo la tragedia. Perché, sì in queste pagine c'è una tragedia, subito detta, subito dichiarata, di cui non si fa mistero. C'è una esplosione. Tutto si polverizza, anche la scrittura si scompone. Cambia il ritmo. La prosa distesa e “pacifica”, diventa un vortice, diventa violenta. La prosa che è un bisturi preciso – nessuna parola che non abbia una intenzione, nessuno spreco – diventa accecante, come il bagliore che (forse) ha travolto, in piazza Duomo, Patrizia.

C’è un prima e c’è un dopo, c’è una voce intima e poi c’è una voce che diventa politica. Questo è Ferdinando nello sguardo di sua moglie. «Appena fuori dal negozio, un uomo decisamente affamato, vestito di abiti lerci e con lo sguardo vuoto, ammira il bengodi e passa oltre. Ferdinando incrocia i suoi passi fuggenti, ma è un attimo. Ripensa alla rata di imposte che deve ancora pagare, pensa a quanto debba lavorare di più, che così non basta mai, come fa a vivere quello, e il tizio scompare dalle sue preoccupazioni. Ferdinando sa quanto è dura per chiunque ed è per questo che crede sia giusto non avere tempo per nessuno, se non per se stessi. Non è egoismo, come ha spiegato senza successo a Patrizia. Ognuno faccia il proprio. Lui la fame la chiama cattiva volontà. Patrizia scuote la testa, di solito, e Ferdinando crede sempre che sia una cosa contro di lui. Non può sapere che Patrizia scuote la testa per negare a se stessa chi sia davvero l'uomo che ama».

Ma questo uomo, il cui mondo è tutto dentro, fatto di ovatta e sicurezza, di colpo si perde. Ed allora, qui, in questo punto esatto della narrazione, noi diventiamo Ferdinando. Ora come lui anche noi siamo oggi obbligati all’atto della ricostruzione, il passaggio dell’analisi e della comprensione diventa inevitabile. E se il suo tempo cupo, quello del dolore, quello dell’ingresso in una misteriosa Stanza, fosse anche il nostro? Vaccari ci mette alla prova, scardina la sua lingua (che riesce pienamente a conquistarsi la condizione di potente ed unica) perché vuole costringerci a scardinarci. C’è un vento di libertà fortissimo in queste pagine. C’è una voce da cui non si può più prescindere.


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