L’anima si cura camminando nel silenzio
A piedi, zaino in spalla, per 190 chilometri, dal santuario di La Verna, dove san Francesco ricevette le stimmate, ad Assisi, attraverso molti luoghi dove il Poverello ha fatto la storia
di Maria Luisa Colledani
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Le faggete delle Foreste Casentinesi mormorano piano nell’alba di questa mattina carica di umidità. Lo zaino in spalla, lo sfrigolio dell’attesa nel cuore, gli occhi ancora volti al santuario di La Verna. Su queste rocce a strapiombo fra i dubbi e la pianura, nel 1224, san Francesco ricevette le stimmate, come ricorda anche Dante: «Nel crudo sasso intra Tevero e Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo / che le sue membra due anni portarno» (Paradiso, XI, 106-108). Allora, erano solo spelonche e caverne, poi, nei secoli, su queste rocce, dove Francesco e i suoi amavano ritirarsi e pregare, crebbero il santuario e il convento. Tutto è abbondanza, perfino quella croce immensa che accoglie ogni donna e ogni uomo sulla piazza del Quadrante. Così semplice ed essenziale da trafiggerti anche se non credi, anche se cammini nel buio. Tutto è ricchezza, come i capolavori di Andrea e Luca della Robbia, la bellezza del chiostro progettato da Giorgio Vasari, la “processione delle stimmate”, che si svolge identica a sé stessa, ogni giorno dal 1431, o le parole di benedizione di fra David, un kouros con il saio e la voce che fa lievitare i pensieri: «Arriverai ad Assisi accompagnata dalla speranza che, per Francesco, è sempre certa».
Si alza il sole, mentre il sacro monte è alle spalle: «Non est in toto sanctior orbe mons», come recita un’iscrizione che si trova nel santuario. Sono i primi passi lungo la Via di Francesco che, in uno zigzagare fra borghi e poggi, fra boschi (quanti daini e quanti caprioli!) e distese di frumento, in 190 chilometri porta fino ad Assisi, attraversando i luoghi dove Francesco ha fatto la Storia e ha messo alla prova le coscienze. Attraverso le Foreste Casentinesi, nel sud della provincia di Arezzo, si arriva a Pieve Santo Stefano, che ospita il Museo del diario (vale una sosta, come pure le tagliatelle al prugnolo). Il sentiero si inerpica, poi, nel fitto dell’Alpe della Luna, quasi un toponimo alla Collodi, fino all’eremo del Cerbaiolo, ricostruito grazie all’amore dell’eremita Chiara dopo la furia dei nazisti. Non è solo questione di un detto popolare – «Chi ha visto La Verna senza vedere il Cerbaiolo, ha visto la mamma senza vedere il figliolo» – ma del carisma di padre Claudio che offre un liquore rinfrescante e le parole di Raimon Panikkar: «In ognuno di noi c’è un monaco».
Passo dopo passo, i pensieri sfilacciati si ricompongono. Ci sono Carlotta e Chiara, dottorande in psicologia, Andrea, avvocato sulle tracce della meditazione e del silenzio, Roberto, controllore radar che cerca puntelli alla fede, Stefano e Vincenzo, compostelliani doc, come Fulvio e Mariella, la devotissima Bruna, romera solitaria da Marsiglia a Roma, Valerio dalle parole di pace, Claudio sulla via della guarigione, Manuela e Alessio, anime belle, francescani del nostro tempo. Tutti con la loro idea di Dio, tutti in cammino per trasformare le ferite in cicatrici. E le cicatrici che cos’altro sono se non tracce vive, cammini sulla pelle di ognuno?
Dopo l’eremo di Montecasale, dove vissero tre santi, Francesco, Antonio e Bonaventura, ecco Sansepolcro, la città di Piero della Francesca. La Resurrezione, da poco restaurata, è un abbaglio di luce ed armonia, come la Madonna del parto, custodita a Monterchi. Si può far tappa a Gricignano per un presepe spettacolare. Poi, gli orizzonti verso il borgo medievale di Citerna si allungano in tappeti di papaveri e frumento e la Madonna di Donatello, ritrovata da pochi anni, valgono la giornata di cammino per ammirare dal belvedere – grazie alle parole di Gilberto – il Monte Subasio, il Fumaiolo e La Verna lontana, e infine fermarsi agli Zoccolanti, al monastero delle benedettine, una cartolina fra ulivi e cipressi, dove suor Ilaria accoglie tutti con occhi rinascimentali.
Dall’aspro paesaggio appenninico si passa alla dolcezza dell’Alto Tevere con una fermata all’eremo del Buon Riposo, così chiamato dallo stesso Francesco nel suo andare verso La Verna. Il chiostro è una bomboniera e Andrea, il custode, svelerà infine uno dei luoghi più coinvolgenti dell’intero cammino, un anfratto che sussurra fede, storia e semplicità. Quella che si respira a ogni passo: Francesco, uomo semplice, come lo definisce Chiara Frugoni nel suo prezioso libro edito da Einaudi, respira, nella sua modernità, a ogni svolta del sentiero, e parla a ognuno. Tommaso da Celano ricorda che il santo, nel 1208 o 1209, ascoltando alla Porziuncola il Vangelo della “missione degli apostoli”, che «non devono possedere né oro, né denaro, né portare bisaccia, né pane, né bastone», abbracciò la strada della predicazione itinerante: è l’andare dei suoi confratelli, ai quali aveva imposto le brache come capo d’abbigliamento, è l’andare di ogni umano.
Città di Castello, il Castrum felicitatis di Plinio, è alle viste con i suoi tanti monasteri. Fra salite e discese, si prosegue verso Pieve de’ Saddi, edificata nel V secolo per conservare la salma di Crescenziano, legionario romano convertitosi al cristianesimo, decapitato su queste colline e rappresentato mentre a cavallo uccide il dragone con una lancia. Nel romitorio attiguo, Federico Bosi offre accoglienza, penne alla diavola e una vista paradisiaca sul silenzio. Qui, più che mai, l’insegnamento di Francesco è vita: «Sarò ricco per tutto ciò che perderò». Non c’è quasi niente alla pieve, solo luce, verde, pietre antiche e le prime lucciole di stagione, eppure non manca nulla per una beatitudine infinita.
I ginestroni fanno il solletico alle nuvole e il sambuco inonda i sentieri: è il creato cantato da Francesco nel Cantico delle creature, incurante delle paure, tutte medievali, per la natura. Dopo Pietralunga, ecco Gubbio. Nei pressi della chiesa di Santa Maria della Vittoria, Francesco ammansì i lupi e, poi, si sale fino all’eremo di San Pietro in Vigneto, dove, pochi giorni dopo di me, è arrivata anche Flavia Franzoni con il suo Romano, per accasciarsi qualche chilometro oltre, fra cielo e terra in una natura intensa come lei. Costruito dai benedettini con materiali recuperati dai ruderi di un tempio pagano, l’eremo è un luogo santo gestito dalla Confraternita di San Jacopo di Compostella di Perugia ed Enea, insieme con Dora e Cristina, sa abbracciare tutti con il suo «Buona vita», un auspicio per sempre.
Mancano ormai meno di 40 chilometri: il castello di Biscina è una bussola appesa al cielo, il fiume Chiascio una via di pensieri e il Lago di Valfabbrica la porta di accesso alla cittadina omonima, con le sue torri medievali e l’Abbazia di Santa Maria Assunta, fra i più antichi monasteri umbri. Dopo la notte a Casa Betania dove suor Lidia è un ospitale «Pax et bonum», ancora poche salite in una mattina in cui le nubi di umidità e il sole giocano a nascondino. Il Bosco di San Francesco dà accesso alla Basilica Superiore, che appare – improvvisa – come una cometa di luce e grazia, di gioia e sogni sognati.
Che tu creda o non creda, che tu sia laico, ateo o agnostico, in questi 190 chilometri più che qualcosa di affascinante, c’è una forza e una profondità che si insinua sottopelle. C’è una tale spiritualità che, prima o poi, ti inginocchi e alzi gli occhi al cielo. Francesco, come mostrano gli affreschi di Giotto nella Basilica Superiore, ha vissuto predicando. Mai, però, davanti a persone che lo ascoltano ma davanti agli uccelli, alla natura e questa rappresentazione tradisce il disagio della Chiesa rispetto a un religioso particolare, che allora assomigliava ancora troppo da vicino a un laico. Che oggi assomiglia così tanto a ognuno di noi, raminghi lungo le sue strade e i suoi dubbi. Ma, come ammonisce fra Gabriele, quando mi consegna il Testimonium peregrinationis peractae ad sanctorum Francisci et Clarae civitatem: «Il vero cammino inizia ora». Dopo il cammino, nel rumore della vita.
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