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L’arte africana conquista Londra

Dalle gallerie ai musei, la presenza della produzione artistica del continente e della diaspora è aumentata e continua a crescere

di Silvia Anna Barrilà

Wendimagegn Belete, Between Matter and Memory 1, 2023 Acrilici, pastelli, serigrafia su tela, 100 x 100 cm, £ 10.000, Courtesy Kristin Hjellegjerde Gallery

3' di lettura

L’arte africana ha conquistato Londra. Tra gli appuntamenti della settimana di Frieze si è ormai affermata la fiera 1-54, dedicata all’arte contemporanea del continente africano e della diaspora, che alla sua 11ª edizione ha attratto un pubblico sempre più ampio e diversificato con un’offerta di qualità a prezzi ancora accessibili (12-15 ottobre).
Ma l’arte africana contemporanea si trova sempre più spesso anche nei musei della City, nelle gallerie e tra gli stand della stessa Frieze London. Pensiamo a Stephen Friedman, che ha dedicato il suo intero stand di Frieze alle maschere fatte di ceramica e oggetti riciclati di Leilah Babirye, che rappresentano la discriminata comunità queer in Uganda, e ha inaugurato la sua nuova sede su Cork Street con Yinka Shonibare, un artista che la galleria rappresenta da 26 anni e che a primavera avrà una personale alla Serpentine (65.000-550.000 £). Per l’occasione Shonibare ha portato con sé un gruppo di nove giovani artisti, tra cui il nigeriano Ozioma Onuzulike con i suoi tessuti fatti di bottoni di ceramica, Gareth Nyandoro e Bunmi Agusto (dipinti) e Uzor Uguala (sculture), che hanno studiato con lui o sono stati ospiti del suo programma di residenze in Nigeria e rappresentano, quindi, nuove proposte da seguire (prezzi da 8.500 a 100.000 $).

Nengi Omuku, «Quorum», 2022, olio su seta sanyan, 132 x 212,5 cm, Courtesy Stephen Friedmann


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Oltre la figura

“L’arte africana è sempre più integrata nei programmi delle gallerie internazionali, che spesso vengono a pescare le loro proposte da noi e le portano a Frieze” ha commentato la direttrice della fiera, Touria El Glaoui. Tra gli stand della fiera africana, che quest’anno è molto cresciuta in dimensioni, accogliendo 62 espositori di cui 14 per la prima volta, “si nota un’evoluzione della ricerca – spiega la direttrice. – Continua ad esserci tanta ritrattistica, poiché il tema identitario rimane importante, ma c’è un approfondimento anche di ciò che sta intorno alla figura: lo sfondo del dipinto e il contesto sociale”. Emerge, per esempio, dall’opera dell’etiope Wendimagegn Belete, classe 1986, che analizza la storia del suo paese e ne sottolinea la stratificazione sovrapponendo fotografie, stampe e pittura (esposta da Kristin Hjellegjerde Gallery di Londra, prezzi 10-25.000 sterline).
La stessa evoluzione si coglie nelle opere di Joy Labinjo, classe 1994, londinese, che ha inaugurato la nuova sede su Cork Street della galleria Tiwani con nuovi ritratti intimi di famiglia che indagano il rapporto intergenerazionale e l’ambiente in cui si inquadra con maggiore dettaglio.

El Anatsui, «Hyundai Commission: Behind the Red Moon», Installazione alla Turbine Hall della Tate Modern, Fotografia ©Tate (Joe Humphrys)

I materiali poveri

“Gli artisti africani contemporanei vanno in una direzione sempre più concettuale” spiega Touria El Glaoui, “ma allo stesso tempo rimane molto forte l’uso di materiali tradizionali come il tessuto e la ceramica”. In fiera, allo stand della galleria del Cairo Ubuntu, c’era una conversazione tra due artisti attraverso la giustapposizione di tessuti Khayameya, un’antica tecnica medievale egiziana oggi a rischio di estinzione: da un lato, il designer francese Louis Barthelemy con il suo linguaggio più pop (3.500-12.500 £) e dall’altro l’egiziano Omar Gabr con la sua osservazione della gioventù egiziana attuale (3.800-6.000 £). Anche l’intricata installazione di Theresah Ankomah nella tromba di uno degli scaloni della Somerset House, storica sede della fiera, mostrava la complicata relazione tra consumismo, relazioni geopolitiche, dinamiche di genere, identità e capitalismo.

Louis Barthelemy, «Ramses Relocation», arazzo, 70 x 112 cm, 4.800 £, Courtesy Ubuntu Art Gallery

In questo ha, certamente, fatto scuola il maestro ghanese di base in Nigeria El Anatsui, che quest’anno è l’artista commissionato per la monumentale Hyundai Commission negli spazi della Turbine Hall alla Tate Modern. “Behind the Red Moon” è una grande installazione, divisa in tre parti, che ripropone in tessuti giganteschi il suo già noto modo di lavorare con pezzi di tappi e lattine per portare l’attenzione sulla storia della globalizzazione, le rotte della schiavitù, ma anche la storia dell’astrazione.

Amine El Gotaibi, «Illuminate the Light», rappresentato da MCC Gallery a Marrakech, Courtesy 1-54

La luce del continente

Un’altra grande installazione protagonista della settimana era quella al centro del cortile della Somerset House, che per la prima volta è stata affidata ad un nordafricano, nella fattispecie marocchino, a poche settimane dal terremoto che ha sconvolto Marrakech. Il progetto, firmato da Amine El Gotaibi, classe 1983, è composto da grandi strutture geometriche come giganteschi chicchi di melograno gettati sul ciottolato del palazzo neoclassico, tutti diversi l’uno dall’altro, a rappresentare la varietà dei paesi africani. Dall’interno sprigionavano una luce che era suggestiva ma anche simbolica, volendo ribaltare il concetto per cui l’occidente ha portato la luce nel “continente nero”. Al contrario, l’Africa, terra di risorse ed energia, “ha la luce dentro”, come ha affermato l’artista al Financial Times. L’interesse per il continente da parte delle grandi potenze, dalla Cina agli Stati Uniti, lo confermano e, anche in considerazione di questa attenzione geopolitica, la visibilità della sua produzione artistica è destinata a crescere.

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