L’arte (e il business) alla sfida imitazioni: la versione di Gucci
di Angelo Flaccavento
3' di lettura
Sembrano i pestiferi Beavis e Butthead dell’omonimo cartoon anni Novanta che imitano gli AC DC. Invece sono Alessandro Michele, il direttore creativo di Gucci, un po’ troubadour e molto glam rocker, e Maurizio Cattelan, l’artista provocatore con il nasone, che ha fatto del cinismo un singolare medium artistico.
Siamo allo Yuz Museum di Shanghai per l’inaugurazione della mostra “The Artist is present”, nata da una idea di Michele, curata da Cattelan, sponsorizzata e prodotta da Gucci, marchio che con l’arte gioca spesso e in modo irriverente, oggi che l’identità di un brand è definita insieme dai prodotti e dalle azioni, dal materiale e dall’immaginario uniti in leghe sfuggenti come mercurio, ma anche mercuriali nel senso proprio di commerciali. I due protagonisti della serata sono vestiti allo stesso modo con il berrettino da baseball, i grandi occhiali dorati e i lunghi capelli fluenti, che nel caso di Cattelan sono una parrucca, indossata come farebbe un piccolo fan, o un imitatore in un programma televisivo nazional-popolare. Effetto esilarante, e valanga di post sui social: perfetto riassunto di un progetto dedicato al tema, attualissimo ma in realtà vecchio come il mondo, dell’imitazione, con titolo e locandina rubati ad una performance di Marina Abramovich e catalogo stampato in forma di quotidiano farlocco - The New Work Times - con silloge di articoli d’archivio dedicati all’argomento.
La copia è un modo per perpetuare l’originale moltiplicandolo? È uno strumento per conoscere e progredire o per sminuire e banalizzare? Gli interrogativi di base sono questi, ma la risposta non è ovvia. «L’originale e la copia esistono entrambi, ma non significa che uno sia migliore o più vero dell’altro – dice Maurizio Cattelan, serio e graffiante –. La copia diventa un originale a sua volta, come un figlio capace di vivere a prescindere da chi l’ha generato». Senza imitazione non ci sarebbe certamente civiltà, e nemmeno progresso. Non ci sarebbe neanche il sistema estetico di Gucci, florilegio di momenti topici della storia della moda recente e passata assemblati in modo folle e personale, con Michele che definisce la propria creatività una lavatrice «nella quale centrifugo di tutto».
Il percorso espositivo è un labirinto di associazioni fulminanti che divertono, illuminano, irritano, infastidiscono, sorprendono. C’è Cloaca, una macchina di Wim Delvoye che replica il processo della digestione fino alle sue maleodoranti conseguenze scatologiche e la Cappella Sistina riprodotta da Cattelan in scala 1:6, set perfetto per i selfie di rito. Ci sono i bagni segreti del Parlamento Europeo di Bruxelles ricostruiti in ogni dettaglio da Superflex, un finto gift shop pieno di falsi, una cantante cinese che intona fino allo sfinimento motivetti finlandesi e un sensazionale accrocchio di statue finto antiche - di Xu Zhen - che è un’ode potente alla contaminazione di culture.
The Artist is Present è progetto faraonico - più di trenta gli artisti coinvolti, cinesi e non, con opere di repertorio o prodotte per l’occasione - di grande intrattenimento e senza snobismo, equivalente culturale di una operazione di co-branding, nella quale l’enciclopedismo pop e un po’ camp di Gucci (a proposito, è di pochi giorni fa la notiza che la prossima mostra al Metropolitan museum sarà dedicata al camp e made possible by Gucci) incontra lo humor brutale di Cattelan.
Prevale Cattelan, certamente: del decadentismo intossicante e morbido di Alessandro Michele non c’è traccia, ma la scelta è consapevole. «Ho lasciato a Maurizio carta bianca – racconta –. Non mi interessa collaborare con un artista per metterlo su una borsetta, ma per penetrare il suo mondo. Shanghai, nella Cina patria della copia, ci è sembrata il posto più divertente per mettere sù questo teatrino». Un teatrino nel quale Gucci sposa l’arte non con il fare pomposo del mecenate, ma con l’entusiasmo di chi si vuole un po’ sporcare, in un progetto estemporaneo che parla ancora una volta della fluidità dei linguaggi creativi contemporanei. Ad Alessandro Michele, il cui entusiasmo scevro da cinisco è trascinante, quel che «interessa è comunicare, senza distinzione di mezzi e strumenti». Basta il pubblico, e in Cina è immenso. L’instagrammabilità del tutto non guasta, e il brand ci guadagna.
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