L’aumento della spesa pubblica a favore delle fasce più deboli non sta dando i risultati attesi
di Ignazio Angeloni e Daniel Gros
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L’opinione espressa da alcuni osservatori anche sulle colonne di questo giornale, secondo cui il governo dovrebbe tenere maggiormente sotto controllo le spese pubbliche correnti (esclusi cioè gli investimenti, i quali, come è giusto che sia, aumentano in attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, o Pnrr) è ora anche la linea della Ue. Pur avendo approvato il Piano italiano, negli ultimi giorni la Commissione europea ha invitato il nostro Paese «ad adottare le misure necessarie nell’ambito del processo di bilancio nazionale per limitare la crescita della spesa corrente finanziata a livello nazionale». Raccomandazione a cui ha fatto eco anche il Commissario europeo per gli affari economici e monetari Paolo Gentiloni.
Al tempo stesso, anche nell’animo di coloro che condividono questa raccomandazione, albergano sentimenti contrastanti. In tempi di pandemia tutt’altro che superata (preoccupano sia gli andamenti in Europa sia la variante Omicron), ha senso preoccuparsi del debito pubblico? Non ha forse detto il presidente del Consiglio Mario Draghi qualche tempo fa che questo non è il momento di togliere soldi ai cittadini, ma semmai di darli? Corriamo il rischio di preoccuparci troppo dei problemi del passato (debito, disavanzo, spesa), non accorgendoci che il mondo è cambiato? Questa è la pungente accusa rivolta in questi giorni da alcuni proprio alla Commissione europea, definita, con accento impropriamente dispregiativo, una «tecnostruttura».
Per capire come stanno effettivamente le cose serve un ragionamento pacato e documentato, senza preconcetti, ma neanche condizionato dai mutevoli venti dell’opinione pubblica e mediatica. Per rispondere a tre domande:
1 È vero che la spesa pubblica corrente sta aumentando troppo?
2 Come si è mossa questa spesa negli ultimi tempi in Italia, anche rispetto ad altri Paesi?
3 È essa efficace, nel senso di raggiungere gli obiettivi che si propone?
Rispondere alla prima domanda non è semplice: i documenti della legge di bilancio non consentono ai non addetti, anche quelli con qualche nozione di economia e dimestichezza coi numeri, di distinguere nella miriade di provvedimenti la componente di investimenti da quella della spesa corrente. Soccorre per fortuna la Banca d’Italia nell’audizione al Parlamento del 23 novembre, stimando l’aumento delle spese correnti ricollegabile alla legge di bilancio in circa 18 miliardi di euro annui sia l’anno prossimo (in cui, per inciso, la crescita prevista dell’economia è del 4,7%, dopo il 6% e oltre di quest’anno) sia nel biennio successivo. Le spese correnti al netto degli interessi raggiungerebbero il 44,8% del Pil; al di sotto del 2020 (48,3%, picco dovuto alla drammatica caduta del prodotto interno lordo), ma ben oltre il livello del 2019 (41,7%), nonostante il fatto che, nel 2022, il Pil dovrebbe essere già più alto. Dal prossimo anno, inoltre, la spesa corrente in rapporto al Pil supererebbe, per la prima volta sensibilmente, il livello del resto dell’eurozona (vedi grafico).
Per rispondere alla seconda domanda è utile un po’ di prospettiva storica. Lo stesso grafico mostra che la spesa pubblica corrente al netto degli interessi in rapporto al Pil è cresciuta, nel ventennio pre-Covid, in modo pressoché costante, passando dal 36,5% del 1999 al 41,7% del 2019. Quella dell’eurozona (esclusa l’Italia) è cresciuta meno, dal 39,9% al 41,6 per cento. Da un lato si può dire quindi che l’aumento italiano è stato in realtà un adeguamento al livello europeo. Dall’altro, va rilevato che mentre gli altri Paesi (soprattutto la Germania, che ha il peso maggiore nell’aggregato) hanno avuto un andamento oscillante, riducendo la spesa nel momenti congiunturali favorevoli per aumentarla nelle crisi, in Italia l’aumento è stato pressoché continuo. È vero, come alcuni rilevano, che in termini procapite la spesa in Italia è inferiore a quella degli altri Paesi. Ma questo dipende dalla nostra produttività per abitante nettamente inferiore a causa sia della bassa produttività per addetto sia del basso tasso di partecipazione alla forza lavoro. Obiettivo primario di qualunque strategia economica deve quindi essere quello di portare più gente al lavoro, soprattutto giovani e donne. A questo fine servono investimenti produttivi, molto più che spese correnti. Può piacere o no, ma un Paese che produce poco difficilmente può permettersi spese pubbliche, soprattutto di natura sociale, elevate in rapporto ai suoi abitanti.
E qui si arriva all’ultima e più cruciale delle tre domande, che riguarda l’efficacia (raggiunge gli obiettivi?) e soprattutto l’efficienza (li raggiunge al più basso costo possibile?) della spesa pubblica italiana. Un giudizio complesso, anche perché non dovrebbe essere indifferenziato, ma distinguere fra diversi comparti di spesa. Proprio a questo servono le spending review, ripetutamente tentate in Italia, ma che non hanno mai avuto vita facile. Alcuni dati raccolti da Eurostat devono però far riflettere. Gli altri due grafici mostrano l’andamento della spesa sociale (sottosettore principale della spesa corrente) in Italia e nell’eurozona (esclusa Italia) e una misura dell’inefficienza di questa spesa. Emergono due evidenze. Anzitutto la spesa sociale è aumentata di più in Italia che nel resto dell’eurozona; l’Italia spendeva meno dei suoi partner per il sociale nel 2005, adesso di più. In secondo luogo, questo aumento non ha portato a una diminuzione delle diseguaglianze. Si puo misurare l’efficacia della spesa dividendola (in % del Pil) per la riduzione che essa realizza nella diseguaglianza sociale, misurata dalla dispersione dei redditi (cosiddetto indice di Gini). L’indice è basso se la spesa riduce molto la disuguaglianza dei redditi, è alto in caso contrario. Come si vede, l’indice per l’Italia è più elevato e soprattutto aumenta significativamente negli ultimi anni, portandosi nettamente al di sopra del livello europeo.
Evidenze parziali, incomplete. Ma nondimeno significative, che devono far riflettere. L’Italia non spende troppo in senso assoluto (salvo capire meglio cosa stia succedendo ora), ma spende male e con scarsa attenzione a ciò che può permettersi. Tagliare le spese in modo indistinto non è la ricetta giusta, ma tagliare quelle che non raggiungono il loro obiettivo deve essere, anzi deve diventare, punto focale dell’azione di governo anche nell’ottica del Pnrr. L’Italia deve investire di più nel suo capitale pubblico, questo è chiaro, ma non potrà farlo a lungo se non diventa più attenta e lungimirante nel modo in cui amministra le altre uscite del suo bilancio pubblico.
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