L’eccesso di prudenza che frena l’inflazione Usa
di Edmund S. Phelps
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Perché la disoccupazione è così bassa in Paesi dove l’inflazione resta sotto controllo? Per gli economisti questa è una domanda di fondo: e quando gli economisti devono misurarsi con una domanda di fondo, spesso il risultato è un disaccordo di fondo.
Io sono stato uno degli economisti ribelli che negli anni 60 hanno rifiutato la macroeconomia che ci era stata insegnata negli anni 50, cioè la teoria «keynesiana» sviluppata da John Hicks, Bill Phillips e James Tobin, che considerava la domanda aggregata come la forza trainante di qualsiasi cosa: l’unica causa di una disoccupazione alta era una carenza di domanda, e l’unica causa di una disoccupazione bassa era un eccesso abnorme di domanda.
Questo ci disturbava, perché la teoria economica di base che ci avevano insegnato, quella costruita da Alfred Marshall, Knut Wicksell e Robert Solow, diceva che tutto era determinato dalle forze strutturali. Un progresso tecnologico più rapido e una maggiore inclinazione a lavorare o risparmiare erano benvenuti, perché potenziavano l’offerta di manodopera e capitale, e di conseguenza l’occupazione e gli investimenti. Ma i keynesiani restavano fermi sulla loro convinzione che le forze strutturali erano una cosa negativa, perché facevano perdere il lavoro alla gente, a meno che lo Stato non riuscisse a fabbricare una domanda sufficiente a bilanciare l’incremento dell’offerta.
Una conclusione a cui giungemmo fu che il percorso di un’economia, misurato sulla base delle variabili macroeconomiche convenzionali di disoccupazione, inflazione e crescita del prodotto, non è interamente determinato (è il minimo che si possa dire) dalla domanda aggregata. Le forze strutturali sono importanti. La tesi dei keynesiani che la «domanda» è onnipotente, che essa sola è in grado di accrescere l’occupazione e di conseguenza gli investimenti, e perfino la crescita, era priva di fondamento. Ma loro continuavano a ripeterla.
L’approccio strutturalista al comportamento macroeconomico condusse al concetto che venne poi chiamato tasso «naturale» di disoccupazione, ricalcando il concetto, emerso in Europa negli anni fra le due guerre, di un tasso di interesse «naturale». Ma il termine «naturale» era fuorviante.
L’idea di base dell’approccio strutturalista è che mentre le forze di mercato oscillano continuamente, il tasso di disoccupazione ha la tendenza a «tornare al punto di partenza». Se per esempio è al di sotto del suo livello «naturale», crescerà verso quel livello, e il tasso di inflazione risalirà. (Naturalmente, un nuovo shock per la domanda potrebbe ricacciare indietro la disoccupazione e ridurre l’inflazione: ma il «tasso naturale» eserciterà sempre la sua forza centripeta.)
Però c’è una complicazione, che sottolineo da tempo: anche il «tasso naturale» può essere spinto in alto o trascinato in basso dai cambiamenti strutturali; e anche i cambiamenti degli atteggiamenti e delle norme degli esseri umani possono avere un impatto.
Questa visione delle cose, tuttavia, è messa in discussione da un curioso sviluppo. L’America e l’Eurozona sono nel pieno di un boom economico. In America la disoccupazione ha raggiunto livelli molto bassi e non dà segnali di voler tornare al suo precedente tasso naturale, a prescindere da quale sia il suo nuovo livello. Basandosi solo su questi dati, un modello strutturalista pronosticherebbe un tasso di inflazione già elevato e in crescita: e invece l’inflazione non corre, nonostante la Federal Reserve abbia inondato l’economia di liquidità. Anche nell’Eurozona la disoccupazione è in calo, ma pure lì i tassi di inflazione rimangono bassi.
Come si spiega questo paradosso di una disoccupazione bassa nonostante un’inflazione bassa (o viceversa)? Al momento gli economisti – sia gli strutturalisti sia i keynesiani duri e puri – sono perplessi. La risposta, inevitabilmente, è che il «tasso naturale» non è una costante della fisica, come la velocità della luce: è evidente che può essere spostato dalle forze strutturali, che siano di origine tecnologica o demografica.
È possibile, per esempio, che le tendenze demografiche stiano rallentando la crescita dei salari e riducendo il tasso naturale. Dagli anni 70 alla fine degli anni 2000, la demografia è stata, sostanzialmente, un problema latente. Ora i baby boomers, che svolgevano lavori relativamente ben pagati, stanno andando in pensione, e i giovani, che cominciano con salari relativamente bassi, non sono ancora entrati interamente nel mercato del lavoro. Questo rallenta la crescita dei tassi salariali a un dato livello di disoccupazione, determinando una disoccupazione più bassa per un dato tasso di crescita salariale.
Più interessante è il possibile effetto dei valori e degli atteggiamenti delle persone (e le loro speranze e paure per le cose che non si sanno e non si possono sapere) sul tasso naturale. Qui entriamo in un territorio inesplorato.
A mio parere, un’ipotesi convincente è che i lavoratori, scossi dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla pesante recessione che ne è seguita, sono diventati reticenti a chiedere promozioni o cercare datori di lavoro che pagano di più, nonostante le condizioni favorevoli del mercato del lavoro in questi ultimi tempi. Un corollario di questa ipotesi è che i datori di lavoro, turbati dalla crescita lentissima della produttività, specie negli ultimi dieci anni, sono diventati restii ad accordare aumenti salariali, nonostante la domanda sia tornata ai livelli ante-crisi.
Sostengo anche, sulla base di un mio modello, che quando il ritorno del dollaro forte, all’inizio del 2015, ha minacciato di inondare i mercati americani di prodotti di importazione, le aziende hanno avuto paura di aumentare l’offerta allo stesso prezzo. Oppure hanno fornito la stessa quantità di prodotti di prima a prezzi più bassi. E si sono rifiutate di aumentare lo stipendio ai dipendenti. Insomma, la maggiore concorrenza ha creato una «superoccupazione»: bassa disoccupazione e bassa inflazione.
Tutto questo non significa che non esista un tasso di disoccupazione naturale, ma solo che non c’è niente di naturale in questo tasso. E non c’è mai stato.
Edmund Phelps, premio Nobel 2006 per l’economia, è direttore del Centro su capitalismo e società all’Università Columbia e autore di Mass Flourishing.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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