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L’economia delle piattaforme innova all’insegna della regressione sociale

È un modello di automazione degli affari umani che si sta affermando a gran velocità, priva di regolamentazione e in assenza di un dibattito pubblico

di Éric Sadin

Reuters

6' di lettura

Un centinaio di migliaia di documenti interni, risalenti al periodo compreso tra il 2013 e il 2017, sono stati divulgati da Mark MacGann, ex responsabile delle attività di lobbying di Uber. Questi espongono le pratiche, adottate da quella che allora era ancora start-up, volte a esercitare delle pressioni su numerosi leader politici in tutto il mondo.

Le pagine pubblicate testimoniano una strategia aggressiva e abilmente elaborata, che – in vista della prevedibile rabbia delle principali vittime, i tassisti – mira a presentare questo modello come una promessa economica tale per cui sarebbe un errore storico, o una chiara mancanza di lucidità, provare a frenarne il continuo sviluppo.

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La società, tra l’altro, ha inaugurato un nuovo modello nel 2009, diventando uno dei principali simboli di un nuovo tipo di economia: quella dei dati e delle piattaforme. Un'economia che, grazie all’avvento degli smartphone, alla loro localizzazione tramite il sistema GPS e ai progressi dell’intelligenza artificiale, era ormai destinata a sfruttare l’interpretazione dei comportamenti degli individui, suggerendogli eventualmente una gamma potenzialmente infinita di prodotti o servizi iper-personalizzati.

Detto altrimenti, si tratta di un’architettura tecnologica che ha permesso di far emergere il principio di una connessione presumibilmente “diretta” tra fornitori di servizi e consumatori. Come Airbnb, per esempio, che è stato lanciato un anno prima, consentendo di stipulare accordi tra host e affittuari occasionali.Il carattere proprio di questa configurazione sembrava incarnare appieno la filosofia iniziale del Web, basata su una struttura non gerarchica, in grado di stimolare, quasi senza alcuna barriera all’ingresso, lo spirito imprenditoriale, o per molti, soprattutto per le popolazioni più svantaggiate, di impegnarsi in nuove professioni senza lunghi periodi di formazione preliminare. Per quanto riguarda gli utenti, hanno potuto improvvisamente beneficiare di un comfort aggiuntivo e vedere il mondo, come con un semplice tocco, venire loro incontro.

Affinché le pratiche di lobbying possano rivelarsi efficaci, non sono sufficienti i mezzi economici e gli abili opinion maker, ma occorre un ulteriore elemento decisivo: un contesto favorevole. E tale contesto era più che mai all’opera nel trionfo di una doxa che, all’epoca, affermava che una simile svolta industriale avrebbe promesso enormi ricchezze, favorendo la creazione di posti di lavoro, nonché nuove modalità di management, “orizzontali e cool” – quelle presumibilmente prevalenti nelle start-up.

Tali componenti sembravano in grado di far emergere una sorta di “capitalismo socialista” nel quale ognuno, se lo avesse desiderato, poteva trarre il massimo beneficio, oltre a forme di realizzazione personale. Ciò spiega l’entusiasmo - l’ebbrezza, potremmo dire - mostrato da quasi tutti i membri dello spettro politico nei confronti di questo spirito imprenditoriale e l’ansia di sostenerlo ardentemente.

Ciò che queste fughe di notizie rivelano non è tanto il desiderio di facilitare deliberatamente le cose, quanto piuttosto di mantenere un atteggiamento di “lasciar fare” che presuppone, con l’aiuto di zelanti economisti dogmatici – e talvolta in cambio di una sostanziosa remunerazione – che questo processo sia così ineluttabile da rendere inutile cercare di ostacolarlo.

Postulato che ha generato una nuova disputa tra gli “antichi” e i “moderni”: i primi non vogliono spazzare via le strutture esistenti, i secondi sono dotati del dono di penetrare nella materia di cui sarà fatto il futuro.Insomma, un’equazione i cui termini implicitamente danno ragione ai cosiddetti visionari, permettendogli di guardare con aria beffarda tutti i retrogradi, così poco consapevoli del senso del corso della storia, sui quali godono a ironizzare affermando che molti di loro si spingono fino a condurre stile di vita “Amish”. La priorità delle priorità deve essere data al sacrosanto primato della crescita. Il tutto, senza alcun riguardo per le conseguenze.

Dieci anni dopo il fulmineo sviluppo dell’economia dei dati e delle piattaforme, è accertato che un gran numero di danni sono stati arrecati a causa del credo cardinale della “disruzione”, che all’epoca era inteso come l'affermata negazione di tutte le conquiste a favore della glorificazione di un'innovazione di “rottura”. O, detto altrimenti, è ormai nota la crudele constatazione che certi tipi di sviluppo tecnico hanno sistematicamente fatto rima con l'inizio della regressione sociale.

Citiamo, tra gli altri, solo qualcuno degli effetti deleteri provocati da questo tecno-liberalismo, apostolo di una rivoluzione perpetua.Sofisticati programmi di evasione fiscale; manodopera costretta a sottostare all’incerto regime del lavoro autonomo, soggetta a una pressione permanente, a un'umiliante valutazione da parte degli utenti.

O, ancora, l’emergere di un nuovo tipo di classe salariale nei magazzini di logistica, in cui gli addetti alla manutenzione sono dotati di auricolari o tablet digitali che dicono loro in ogni momento quali compiti eseguire, mediante dei sistemi di intelligenza artificiale che li costringono a lavorare a ritmi infernali, riducendoli a dei robot in carne e ossa.In realtà, al di là delle sole conseguenze sociali, si tratta di un modello di civiltà che si sta affermando a grande velocità: quello di una crescente automazione degli affari umani. Al punto che il brand Uber sta pensando di sostituire il personale conducente con delle vetture a guida autonoma o Amazon sta valutando la possibilità di recapitare i prodotti ricorrendo ai droni.

Secondo questa ideologia, che mira alla suprema efficienza in ogni ambito, gli esseri umani sono considerati sia, in fin dei conti, soprannumerari sia fortemente deficitari. Da un lato, nei processi produttivi, l'umano è visto solo come un ingranaggio di fatto incostante e destinato, come tale, a essere controllato da algoritmi e, in futuro, a scomparire.

Dall’altro lato, nella vita quotidiana, le tecnologie consentono oggi di guardarci come degli individui i cui comportamenti devono essere continuamente analizzati e orientati per dei fini commerciali o per l’estrema ottimizzazione dello sviluppo sociale.Se in molti paesi il legislatore si è concesso di essere così poco vigile – e, purtroppo, sembrerebbe volerlo continuare a essere –, tuttavia, ci inganneremmo se considerassimo la regolamentazione una panacea.

Poiché non sono solo dei processi a essere all’opera, ma, soprattutto, questo ethos della continua automazione degli affari umani. E la peculiarità di un ethos è che non può essere regolamentato, ma solo inquadrato in alcune delle sue innumerevoli forme; il che, in fondo, non modificherebbe né la sua incidenza né la sua natura profonda.

Nonostante l’evoluzione delle coscienze, sembra che la storia balbetti. Dopo il confinamento dovuto alla pandemia da Covid-19, stiamo passando da un’economia dei dati a un’economia “a distanza”.

È in questa prospettiva, che promette di generare inesauribili fonti di profitto, che Mark Zuckerberg ha annunciato, nell’ottobre 2021, il cambio di nome del suo brand, Facebook, in Meta. Con l’obiettivo di costruire un ambiente informatizzato che, per mezzo di visori per la realtà virtuale, dia l’impressione di essere immersi in una realtà che assume i contorni dei soli pixel: il metaverso.

È il nostro rapporto con il reale, con gli altri, con noi stessi, che è chiamato a cambiare grazie a sistemi che tracciano i nostri minimi gesti, orientandoli unicamente verso il profitto o verso l’iper-razionalizzazione dei nostri atti.

Questa galassia di simulazione integrale rischia di imporsi presto su di noi senza che abbia luogo alcun dibattito pubblico, malgrado le sue gigantesche conseguenze sulla civiltà. E questa traiettoria è oggi sostenuta mediante ingenti investimenti o, per esempio, da Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, che ha dichiarato di voler lavorare alla costituzione di un “metaverso europeo”.

Infine, a ben vedere, tutte queste sofisticate pratiche di lobbying impiegate dall’industria digitale – in particolar modo all'alba degli anni 2010 – e il consenso che spesso hanno incontrato, non fanno che confermare un potente fenomeno: il progressivo passaggio di consegne dalla politica al mondo tecnico-economico.

È giunto il momento di capire fino a che punto, negli ultimi vent’anni, un manipolo di qualche migliaia di persone si è occupato di amministrare, da parte a parte, il corso delle nostre esistenze individuali e collettive al solo fine di interessi privati e di una visione strettamente utilitaristica del mondo.

Per questo motivo spetta a ciascuno di noi, a tutti i livelli della società, di trarre insegnamento da queste derive e di esprimere, negli atti, la nostra capacità di influenzare il corso degli eventi, così come le nostre aspirazioni, per stabilire delle modalità di esistenza e di organizzazione comune basate su principi e valori completamente diversi. Si tratta di un imperativo morale e politico di capitale importanza per il nostro tempo.

Éric Sadin è un filosofo, specializzato nel mondo digitale e del suo impatto sulla società e la civiltà. Molti dei suoi testi sono stati tradotti in italiano, tra cui, recentemente, “La società digitale e la fine del mondo comune” (Luiss Universiy Press, 2022).

Questo articolo è stato pubblicato su Le Monde il 19 luglio

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