L’effetto coronavirus risveglia il rischio liquidità sui mercati
Bond a tasso negativo, high yield e leveraged loan Usa le principali vittime potenziali. Il ruolo dei fondi passivi può amplificare gli eventuali effetti dirompenti e l'Europa non è immune
di Maximilian Cellino
3' di lettura
Non assumerà forse le sembianze del proverbiale «cigno nero», ma l’epidemia di coronavirus può davvero di rappresentare quel granello di sabbia in grado di bloccare gli ingranaggi del motore dei mercati, che fino a qualche giorno fa godeva di apparente ottima salute e viaggiava a velocità mai raggiunte. Secondo i più pessimisti fra gli economisti e i gestori, la diffusione del virus partito dalla Cina rischia anzi di essere la punta di spillo che fa scoppiare le diverse bolle involontariamente create dal «denaro facile» che da un decennio le Banche centrali hanno rovesciato in ogni parte del mondo.
La liquidità pompata a gran ritmo sui listini (15mila miliardi negli ultimi 10 anni) è però un arma a doppio taglio: volendo proseguire sul filo della metafora è come una marea. «Cresce quando l’umore degli investitori è alle stelle, ma è pronta a ritirarsi in modo molto rapido quando la paura torna a farla da padrona» avverte Tad Rivelle, capo degli investimenti sul reddito fisso di Tcw, società indipendente californiana che gestisce asset per 217 miliardi di dollari. E il coronavirus è ovviamente titolato a tutti gli effetti a infondere paura fra gli investitori, al punto da poter scatenare una crisi di liquidità che in fondo resta un aspetto radicato nel Dna stesso dei mercati.
L’attenzione va in questo caso istintivamente al mondo alla rovescia delle obbligazioni, quello in cui titoli per migliaia di miliardi viaggiano a tassi negativi: il paradosso del 21esimo secolo in base al quale si paga per prestare denaro a un emittente. Se restringiamo il campo ai soli titoli di Stato (ed escludiamo i BTp) la reazione all’escalation di tensione sui mercati si è per la verità trasformata in una caccia ai Bund (il cui rendimento decennale è tornato a -0,50%), ai Treasury (minimi storici a 1,33%) e agli altri governativi percepiti come porto sicuro nella tempesta. E anche il controvalore complessivo dei bond a tasso negativo registrato dagli indici Bloomberg Barclays è tornato a salire oltre 14mila miliardi di dollari e a puntare verso i record della scorsa estate.
Il mondo del debito è però molto più sfaccettato e problematico, vale complessivamente l’enormità di 253mila miliardi di dollari (322% del Pil mondiale) e i maggiori problemi si trovano altrove. Per esempio fra i titoli ad alto rendimento (high yield) il cui numero è proliferato a dismisura proprio per la facilità di reperire capitali sul mercato, anche da parte di aziende non sempre meritorie. Ma non solo, se soltanto negli Usa si sommano le dimensioni dei già citati bond high yield, a quelle dei leveraged loan (i prestiti «a leva» erogati alle società e negoziati sul mercato quasi come obbligazioni) e al private debt (che addirittura non sono scambiati) si superano i 3mila miliardi, quasi il doppio del 2008.
Il problema in questo caso è che tali mercati non brillano per trasparenza: sono poche (e in diminuzione) le società quotate e tenute quindi a diffondere dati finanziari in modo regolare ed esaustivo. L’opacità non è certo un ostacolo nei cicli rialzisti, quando si compra tutto senza discriminazione, ma lo può diventare se domina l’avversione al rischio: «In queste fasi - spiega Rivelle - gli investitori pongono di nuovo domande, si crea un gap informativo tra chi vende e chi compra e questo genera illiquidità, perché la differenza tra il prezzo desiderato e quello offerto è troppo ampia e le transazioni non si chiudono».
Una complicazione aggiuntiva in uno scenario simile è rappresentata dal proliferare dei fondi passivi (Etf e non solo), che replicano in modo automatico la composizione di un indice. Il loro ruolo è infatti proattivo quando i mercati salgono, ma diventa molto pericoloso quando invece le vendite si fanno indiscriminate e accentua i rischi potenziali sulla liquidità. E se nella vecchia Europa la diffusione di strumenti di debito ad alto rischio ricordati in precedenza(pur in forte crescita) non ha ancora raggiunto i livelli allarmanti degli Stati Uniti, non altrettanto può dirsi per i prodotti di investimento a gestione passiva. Il loro valore rappresenta circa il 14% dei fondi denominati in euro, e la quota sale al 28% quando si considerano soltanto quelli che investono in bond: una vera mina vagante, se e quando il flusso di capitali si invertirà.
Un evento, quest’ultimo, che al momento non si può però dare del tutto per scontato: «Del virus si sa davvero ancora poco ed è altrettanto plausibile che lo shock abbia una durata così breve da consentire, dopo qualche aggiustamento dei prezzi nel breve termine, di continuare ad aumentare la leva nel sistema e di mantenere le valutazioni ‘tirate' che caratterizzano i mercati attuali», ammette Rivelle. Lunga vita alle «bolle» finanziarie, coronavirus permettendo.
loading...