L’enorme debito della Cina e il rischio contagio per l’Occidente
A marzo 2021 il debito aggregato di famiglie, aziende e settore pubblico superava i 46 mila miliardi di dollari, pari al 287% del Pil cinese
di Marcello Minenna
I punti chiave
9' di lettura
La vicenda Evergrande ha riportato prepotentemente alla ribalta il tema dell'enorme debito dell'economia cinese e dei possibili rischi di contagio dentro e fuori il gigante asiatico in caso di deflagrazione.
I dati della Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS) sul credito al settore non finanziario permettono di inquadrare immediatamente le dimensioni eccezionali del fenomeno. A marzo 2021 il debito aggregato di famiglie, aziende e settore pubblico superava i 46 mila miliardi di $, pari al 287% del PIL cinese. Ad essere impressionanti sono soprattutto i ritmi di crescita, con un incremento medio annuo del 18% negli ultimi due decenni. Come conseguenza, se a inizio secolo la Cina rappresentava una quota abbastanza contenuta (meno del 3%) del debito globale del settore non finanziario (pubblico e privato), attualmente il suo peso è del 21%, secondo solo a quello degli Stati Uniti (28%, cfr. )
Anche nel periodo più recente, l'economia cinese non ha esitato a fare ampio ricorso alla leva del debito per uscire rapidamente dall'emergenza pandemica. Tra marzo 2020 e marzo 2021, il leverage complessivo è salito del 22% a fronte del +8,5% degli Stati Uniti e del +14% dell'area euro. In termini di contributo all'incremento del debito non finanziario globale nell'intervallo temporale considerato (oltre 26 mila miliardi di $), la Cina ha sopravanzato nettamente le altre macro-aree economiche, con un peso pari a quasi 1/3 del totale (cfr. Figura 2).
Come si è formata questa montagna di debito?
Fino al 2008 la crescita del debito è andata sostanzialmente di pari passo con quella dell'economia, per cui il leverage degli operatori non finanziari ha rappresentato una percentuale tutto sommato abbastanza stabile del PIL. La prima grossa accelerazione si è avuta nel 2009: su pressione delle autorità preoccupate di reagire adeguatamente alla crisi finanziaria globale, il sistema bancario ha più che raddoppiato i nuovi prestiti all'economia rispetto all'anno precedente (da 4178 a 9622 miliardi di Yuan). Da allora il rapporto debito/PIL della Cina ha continuato a crescere a passo spedito fino al 2015, arrivando a superare quello globale già a fine 2014 (cfr. Figura 3).
Protagonista indiscusso di questa prima fase di espansione sono state le aziende non finanziarie, che a fine 2015 avevano un debito complessivo pari a 1,6 volte l'intero prodotto interno lordo della Cina (cfr. Figura 4). Nel caso delle aziende statali questo exploit è stato favorito principalmente dalle banche pubbliche, mentre per quelle private le risorse sono arrivate in abbondanza anche dai canali creditizi non regolamentati, il famoso shadow banking.
Proprio la crescita incontrollata dello shadow banking (+660% tra dicembre 2008 e dicembre 2015) è stata tra i fattori che hanno spinto il governo di Pechino ad avviare una politica di deleveraging dell'economia tra fine 2014 e il 2015. L'effetto di questa policy è stato quello di arrestare l'avanzata del debito corporate che infatti negli anni successivi si è mantenuto intorno al 150% del PIL. Questa seconda fase (durata sino a fine 2019) ha visto invece una significativa crescita del debito delle famiglie passato dal 48% al 55,5% del PIL, con una notevole incidenza dei mutui immobiliari. Infine, la fase più recente è quella legata alla risposta allo shock pandemico partito proprio dalla Cina e risulta caratterizzata da un balzo in avanti del leverage in tutti i tre sotto-settori facenti parte dell'economia non finanziaria.
Un boom immobiliare senza precedenti
Il comparto immobiliare è tra quelli che hanno maggiormente beneficiato del rapido accumulo di debito dell'economia cinese. La connessione tra il boom immobiliare e il boom del credito alle aziende risulta evidente confrontando quest'ultimo con i dati del National Bureau of Statistics of China (o NBSC, in pratica l'ISTAT cinese) sugli investimenti immobiliari nel paese (cfr. Figura 5). Le dinamiche delle due grandezze sono ampiamente sovrapponibili.
Gli investimenti immobiliari, che a fine 2008 erano pari a 471 miliardi di $, nel 2014 avevano superato i $ 1500 miliardi; dopo un modesto rallentamento nel biennio 2015-2016, hanno ripreso a crescere già dal 2017 e a dicembre 2020 hanno raggiunto quota 2166 miliardi di $.Alla base di queste cifre astronomiche vi sono diversi fattori, a partire dalla forte domanda di abitazioni soprattutto nelle città.
Il processo di urbanizzazione ha determinato un flusso eccezionale di individui dalle zone rurali verso quelle metropolitane. Nel 2000 il 64% della popolazione cinese viveva nelle aree rurali; nel 2015 questa percentuale era scesa al 50% circa e oggi è intorno al 38%. Tale fenomeno si è intersecato con un'altra caratteristica peculiare della realtà cinese: l'elevato tasso di proprietà delle case. Tra le grandi economie la Cina è infatti quella con la più alta percentuale di abitazioni occupate dai proprietari (circa il 90%) e oltre il 20% delle famiglie possiede più di una casa, dato superiore a quello di molti paesi sviluppati. Si tratta di abitudini di vita e di investimento che si sono consolidate nel tempo e che riflettono la preferenza dei cinesi per gli investimenti percepiti come poco rischiosi (la sicurezza del “mattone”) rispetto a quelli considerati più azzardati, come ad esempio nel mercato azionario.
Queste dinamiche socio-culturali sono state favorite dagli ingenti afflussi di liquidità dall'estero in contropartita del successo commerciale della Cina nell'arena internazionale. Ma un ruolo determinante ha avuto anche l'abbondanza di credito all'economia da parte del sistema finanziario, favorita da anni di accondiscendenza delle autorità monetarie. Quando il settore immobiliare, estremamente importante per la crescita economica, mostrava segni di rallentamento, la banca centrale (PBOC) interveniva tagliando i coefficienti di riserva obbligatoria delle banche per garantire una copiosa offerta di credito sia alle aziende del settore che alle famiglie, con l'effetto di sostenere i prezzi delle abitazioni (cfr. Figura 6).
A lungo andare questi meccanismi di supporto “artificiale” hanno alimentato uno scollamento tra le quotazioni degli immobili e il reddito delle famiglie, testimoniato da valori abnormi del rapporto tra prezzo delle case e reddito annuo (house price-to-income ratio).
A Hong Kong il rapporto è pari a 45, a Pechino è addirittura prossimo a 50: il prezzo di una casa nella capitale è cioè circa 50 volte il reddito annuo. Cifre così alte non si sono viste neppure in Giappone durante la bolla dei primi anni '90. Senza contare che parliamo di valori medi su tutte le abitazioni, ma è risaputo che nelle città più rinomate (tier 1) le quotazioni delle case sono nettamente superiori.
Ad esempio, a giugno 2021 il prezzo medio al metro quadro dell'edilizia residenziale era di 3240 $ calcolato su un campione di 50 città di vario livello, mentre quello delle abitazioni nelle città tier 1 era di ben 8140 $.
Speculazione e indebitamento eccessivo
Il surriscaldamento del settore ha alimentato condotte speculative e di azzardo morale da parte delle società di sviluppo immobiliare (developers) favorendo un'eccessiva proliferazione edilizia, certificata dall'elevata quota di abitazioni vuote. Secondo un'indagine condotta a livello nazionale, nel 2017 quasi il 22% del patrimonio abitativo urbano della Cina non era occupato, il che equivaleva a più di 50 milioni di case vuote.Per finanziare i loro progetti le aziende immobiliari hanno accumulato un debito-monstre non solo nei confronti di banche e altri intermediari ma anche verso controparti non finanziarie.
Molto comune è la prassi secondo cui i costruttori incassano cospicui anticipi o depositi cauzionali dai clienti su immobili ancora non completati o neppure iniziati. Anche il pagamento dei fornitori tramite commercial papers (in pratica note di credito a breve termine) è assai diffuso, tanto che lo scorso luglio i regulators cinesi hanno cominciato a chiedere ai developers di includere informazioni sull'emissione di queste forme di debito nei loro report periodici. La stessa Evergrande, ora nella bufera, pare abbia emesso oltre $ 32 miliardi di commercial papers ancora non rimborsati.Per avere un'idea dell'enorme leverage del settore basta considerare che a fine 2020 le prime 5 società immobiliari (Country Garden, Poly, Evergrande, Vanke e Sunac) avevano passività totali per oltre 1000 miliardi di $, circa 10 volte in più dei livelli del 2011 (cfr. Figura 7). E questo dato non include le passività “fuori bilancio”.
La policy delle «tre linee rosse»
Sin dall'agosto 2020 il governo di Pechino ha reso nota l'intenzione di limitare l'indebitamento dei developers con l'obiettivo di arrestare la crescita dei prezzi degli immobili, dirottare il credito verso altri settori strategici (come quello tecnologico) e frenare la speculazione. La stretta è arrivata quest'anno con la policy delle «tre linee rosse», che stabilisce delle soglie per tre rapporti finanziari di alcune grandi società immobiliari: passività su attivi totali, debito netto su capitale proprio e cassa su debito a breve. Secondo quanto stabilito dalla PBOC insieme al Ministero dell'Edilizia Abitativa, i primi due rapporti devono essere inferiori rispettivamente al 70% e al 100%, mentre il terzo deve essere superiore al 100%.
Se un'azienda non rispetta nessuna delle tre soglie, l'anno successivo non potrà aumentare il proprio debito più del 15%. Per avere un termine di paragone, è utile osservare che lo scorso decennio alcune grandi aziende come Country Garden e Evergrande hanno raggiunto picchi di incremento delle passività totali rispettivamente pari al 95% e al 75%. Le nuove regole hanno reso più ostile il clima finanziario per le società immobiliari, non solo per via dei limiti al leverage ma anche e soprattutto perché – insieme ai primi default di piccole aziende pubbliche – hanno contribuito a mettere in discussione la garanzia implicita dello Stato sul debito delle imprese.
A febbraio 2021 la società China Fortune Land Development non ha onorato alcuni pagamenti e intanto anche altri developers hanno iniziato ad avere problemi di liquidità. Nel caso di Evergrande (che, manco a dirlo, non rispettava nessuna delle tre linee rosse) questo scenario ha aggravato una situazione che si era deteriorata sin dal terzo trimestre 2020. All'epoca risalgono infatti i primi rumors secondo cui, se gli investitori strategici avessero chiesto indietro i propri soldi, Evergrande avrebbe avuto una crisi di liquidità. Da allora le cose sono precipitate.
Le banche hanno cominciato a ridurre la loro esposizione, i regulators hanno messo sotto torchio la società e il management ha iniziato a vendere rami d'azienda per fare cassa e ripagare i debiti. In poco tempo sono arrivati i downgrades da parte delle principali agenzie di rating e i prezzi dei bond emessi da Evergrande sono crollati. Mancanza di disponibilità liquide e impossibilità di fare funding hanno fatto il resto. La deflagrazione di Evergrande e la propagazione istantanea della crisi agli altri developers cinesi, alle industrie collegate a valle e a monte e ai mercati finanziari globali hanno costretto la PBOC a intervenire iniettando liquidità nel sistema per parecchi giorni di seguito.
Considerate la rilevanza del settore per l'economia cinese e l'urgenza di contenere la vendita incontrollata delle abitazioni con conseguente crollo dei prezzi, è molto probabile che Pechino cercherà di gestire l'insolvenza della seconda società immobiliare del paese in modo ordinato, verosimilmente facendo uno spezzatino dell'azienda e nazionalizzandone una parte come accaduto con il gruppo HNA.
Il dilemma di Pechino
Il vero quesito è se questa strategia di gestione possa funzionare a livello sistemico tenuto conto che molti altri big (immobiliari e non) sono ultra-indebitati.Negli scorsi anni le autorità cinesi avevano già cercato a più riprese di stabilizzare il settore immobiliare. In concreto queste iniziative hanno però avuto scarso successo per via dell'atteggiamento ambiguo dei policymakers ben consapevoli che il successo economico del paese è strettamente legata all'abbondanza di credito.L'ennesimo tentativo di quest'anno appare più risoluto anche perché si inquadra nel più ampio progetto del governo di Xi Jin Ping di virare verso una “crescita genuina” che punta a disconnettere lo sviluppo economico della Cina dallo stimolo creditizio e a perseguire la prosperità di tutti (common prosperity).
In quest'ottica si inseriscono non solo i recenti interventi riguardanti il settore immobiliare (tutti devono potersi permettere una casa) ma anche altre mosse tra cui le multe a colossi come Alibaba, l'azione di contrasto alla quotazione di grandi aziende del paese nel mercato USA e i ripetuti ban alle cripto-valute. Parafrasando un recente commento di Adam Tooze, storico dell'economia e Professore alla Columbia University, l'obiettivo è quello di mantenere in Cina le risorse e i capitali della Cina. Ad esempio, da poco è saltata un'operazione che avrebbe portato BlackRock a rilevare un gruppo immobiliare da due magnati cinesi.
Purtroppo, la trasformazione del panorama socio-economico a cui ambisce Pechino non è cosa semplice da realizzare. Sul tema l'Occidente è spaccato in due. BlackRock, nonostante l'ultima batosta, continua ad avere una visione positiva e pare stia lanciando un nuovo ETF legato alla performance delle aziende cinesi del comparto tech. Del resto anche negli ultimi mesi la performance dell'export cinese è stata molto buona e anche variabili finanziarie chiave come lo stock di riserve valutarie della PBOC e il tasso di cambio dello Yuan si mantengono su valori assolutamente stabili. Altri analisti hanno invece una posizione più prudente, e addirittura c'è chi preconizza il declino del Dragone sottolineando il deterioramento degli indicatori demografici e di produttività totale dei fattori. Sorvolando sulle conseguenze di breve termine (che diventeranno più chiare nelle prossime settimane), quel che è certo è che ormai la rilevanza economica, la capacità di innovazione e la determinazione della Cina sono talmente consolidate che inevitabilmente continueranno ad attrarre nel paese i grandi capitali internazionali. Occorrerà vedere se gli investitori avranno imparato la lezione e faranno un re-pricing del rischio di credito degli emittenti cinesi o se invece anche lo scandalo Evergrande non avrà insegnato nulla.
Marcello Minenna, Direttore Generale dell'Agenzia delle Dogane e Monopoli
@MarcelloMinenna
Le opinioni espresse sono strettamente personali
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