«L’equilibrio umano-digitale è da sempre una sensibilità tutta italiana»
«L’intelligenza artificiale forse non ci dirà mai chi siamo veramente, ma può rappresentare un aiuto a conoscerci meglio
di Marco Ferrando
6' di lettura
«L’intelligenza artificiale forse non ci dirà mai chi siamo veramente, ma può rappresentare un aiuto a conoscerci meglio. E a migliorarci, esattamente là dove ne abbiamo bisogno». Nel dibattito che monopolizza l’attenzione del momento Giovanni Giovannelli è portatore di un punto di vista originale e privilegiato: primo italiano di sempre nel comitato esecutivo di Pearson, è responsabile dell’English learning del gruppo leader globale in questo business. Guida un team di 1.500 persone sparse in 40 Paesi e dispone di un ideale osservatorio sul miliardo e mezzo di persone che in questo momento stanno studiando l’inglese in tutto il mondo: bambini, giovani, adulti a scuola, al lavoro o per interesse personale. Qui ha capito, sulla sua pelle, che l’intelligenza artificiale, quella giusta, è più un aiuto che un pericolo.
Liceo classico al Cicognini di Prato e laurea in Bocconi (relatore Mario Monti), poi Ph.D. in America e diversi ruoli da ceo in Brasile, tra industria e finanza. Moglie medico brasiliana e due figli adolescenti con doppio passaporto, da quattro anni è tornato a Milano: «Per vivere, non per lavorare», racconta nel suo giardino a due passi dalla Cattolica e a cinque minuti da Cordusio: è un giorno feriale, ma questo angolo centralissimo sembra fuori dal mondo e offre un silenzio surreale. Il trolley è accanto alla porta, dopo la chiacchierata con «Il Sole» partirà per ...: «Sono all’estero per lavoro tutta la settimana, ma qui ho trovato un ambiente stimolante per me e soprattutto per la mia famiglia, è una città che sta vivendo una fase bellissima. All’etica del lavoro ha aggiunto start up, tecnologia, un clima che vibra di innovazione». La sede di Pearson è a Londra, ma solo due dei dodici componenti dell’executive team abitano nella capitale inglese. «Con Gabriela abbiamo pensato a New York, che però era svantaggiosa per il fuso orario. Allora Lisbona, ma poi non abbiamo avuto dubbi: Milano. Perché non è una città per pensionati, ma attrae gente di tutti i tipi e può diventare un hub di talento».
Fine della réclame. Da Milano torniamo al mondo, e alle lezioni che si possono imparare insegnando l’inglese. Per un player come Pearson le declinazioni nazionali e la personalizzazione di prodotti e servizi sono determinanti, ma la matrice è unica e globale. Ne fa parte, ad esempio, una Global Scale of English in 90 punti che consente di diagnosticare con precisione millimetrica la preparazione di uno studente, di un addetto al primo impiego o di un top manager: «Ognuno ha bisogno dell’inglese per motivi diversi. Dunque, è fondamentale non solo apprendere, ma anche e soprattutto monitorarsi di continuo e individuare chirurgicamente ciò che manca e ciò che serve». Un percorso fatto di elementi ad alto e basso valore aggiunto, in parte seriali e altri personalizzati, in cui l’intelligenza artificiale si è affacciata ormai vent’anni fa, per assumere un ruolo via via più centrale: «L’insegnante non può essere sostituito visto il suo ruolo unico nel capire e stimolare l’alunno, eccetto che su alcuni compiti ripetitivi in cui aggrega meno valore. Penso, ad esempio, alla correzione di esercizi standard, o alla misurazione dei progressi ottenuti. Sono compiti che la macchina può svolgere meglio in altri casi, con un impiego di energie più adeguato».
Curioso ragionare di immersione digitale in una situazione così tipicamente umana, com’è la conversazione davanti a un bicchier d’acqua seduti a un tavolino di vetro sotto il sole di una calda estate: «Da Platone in avanti è diventato chiaro a tutti quanto l’insegnante sia una figura decisiva per la maturazione di ogni persona, e non ci sarà mai nessun robot che possa sostituirla. Nei nostri processi l’intervento umano resta decisivo, ad esempio quando c’è da costruire un percorso di formazione, o da valutarlo. L’intelligenza artificiale non sostituisce ma è complementare». Detta così non sembra neanche troppo paradossale: «Dobbiamo serenamente prendere atto che alcuni compiti, anche in un campo così umano come la formazione, la macchina è in grado di svolgerli meglio, semplicemente perché può disporre dei dati, ed elaborarli in modo più raffinato e scientifico». Ma non vengono i brividi, a pensare che l’uomo possa conoscersi meglio attraverso una macchina? «Tutti tocchiamo con mano che ogni persona ha un valore in sé stessa che non percepisce fino in fondo. L’intelligenza artificiale può contribuire in modo determinante a farlo emergere, e a offrirgli possibilità di migliorarsi aprendo strade diverse e per questo inimmaginabili dall’interessato. Poi starà a lui decidere se sfruttarle o meno».
Qui dall’intelligenza artificiale la conversazione si sposta su un altro tema, collegato e decisivo: la leadership. Un architrave che ha segnato il percorso di Giovannelli da quando incontra Jim Collins alla Harvard Business School e segue poi uno dei suoi corsi a Boulder, in Colorado. Folgorato dallo studioso americano di business strategy, autore di Good to Great, come si vince la mediocrità e si raggiunge l’eccellenza, questo giovane italiano ormai cosmopolita costruisce la parte decisiva della sua identità di manager, dove – ancora una volta – il mix tra componente umana e componente digitale è decisivo. «Ormai lo sviluppo tecnologico è talmente veloce e pervasivo che non può esser diretto, ma al massimo indirizzato. In questo contesto, nella mia concezione che ho sperimentato anzitutto sulla mia pelle il leader deve saper intercettare i grandi trend per trasformare il business dal punto di vista strategico, consegnare i risultati e soprattutto ispirare le persone. Anche e soprattutto a crescere non solo verticalmente ma anche in ambiti diversi».
E quindi, nel perenne braccio di ferro tra soft skills e hard skills, di cosa c’è bisogno di più? «Se pensiamo a chi ha ambizioni e caratteristiche da leader, non ho dubbi: le human skills. E al primo posto ci metto la capacità di comunicazione, in cui la conoscenza di più lingue è determinante». Conflitto di interessi? «Ma no, è un dato di fatto. Quello che fa la differenza in una persona è la capacità di conoscersi, imparare sempre cose nuove e aprirsi nuovi orizzonti. E non c’è nulla che possa aiutare più di una lingua fatta propria, appresa, non solo parlata». Quindi non è solo l’inglese. «Ovviamente. Quando pensiamo a studiare l’inglese o qualunque altra lingua ci dimentichiamo l’aspetto più stimolante: imparare una lingua straniera apre a ben più che “intendersi”, permette di capire l’altro, la sua storia cultura e ampiezza di orizzonte e risulta spesso in uno stimolo di nuovi interessi». Lui lo ha sperimentato sulla propria pelle, visto che di lingue ne parla cinque.
Peccato che oggi, se guardiamo a come va il mondo, a livello geopolitco c’è molta più voglia di chiudersi che di aprirsi. «È vero, ma credo che ci sia da distinguere cause ed effetti. Molti dei conflitti che osserviamo nascono da una chiusura all’altro, dal vedere il diverso come ostile o pericoloso. Uno dei passaggi fondamentali, certo non l’unico, per superare la fase che stiamo vivendo è invece provare a capirsi e conoscersi meglio, mettere a fuoco la propria diversità e il proprio valore a partire da una visione del mondo e delle cose che sia più ampia perché consapevole di non essere l’unica. Altrimenti non si costruisce niente insieme, come nella metafora della torre di Babele».
Ecco, Babele. L’Italia di ieri e di oggi la ricorda molto da vicino. L’ultima domanda non può che essere proprio sul nostro Paese: in questa spasmodica ricerca di paradigmi alternativi, e di nuovi equilibri tra umano e digitale, tra innovazione e sostenibilità, c’è spazio per una via italiana? «Ne sono ogni giorno più convinto, diversamente non avrei portato qui i miei figli in una scelta che rifarei dopo anni. L’Italia continua a essere un riferimento nel mondo per la capacità di cogliere la bellezza, e di riproporla con creatività in prodotti e servizi sempre nuovi che rispondono alle domande della persona e ai nuovi bisogni che il digitale ci ha portato. L’equilibrio tra umano e digitale è in continua evoluzione ma si può vivere questa tensione come una occasione per rendere più bella, e autentica, ogni esperienza. Se ci pensiamo questa è sempre stata una sensibilità profondamente italiana».
loading...