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L’età dell’Odio in rete e la ricerca tribale del capro espiatorio

Dietro il nuovo romanzo di Daniele Rielli, Odio, si finisce per scorgere la trama di qualcosa di più profondo, l'idea che la nostra epoca non si sia mai davvero distaccata da aspetti arcaici e tribali dell'umanità che tendiamo a pensare di avere superato ormai una volta per tutte

di Marco Alfieri

Illustrazione di Andrea Marson/Il Sole 24 Ore

10' di lettura

Perché ogni giorno internet sembra darci in pasto un nuovo capro espiatorio? Perché questa diffusa sensazione di un'esplosione imminente che attraversa la società occidentale nonostante, in realtà, la violenza non sia mai stata così in diminuzione? È possibile che il nostro sia un momento di risacca prima dell'abbattersi della grande onda?

Daniele Rielli ha provato a rispondere a queste e altre domande in Odio, il suo nuovo romanzo appena pubblicato da Mondadori. L'opera di Rielli è un romanzo rutilante, ambizioso, curato nei dettagli – dietro le sue pagine s'intravvede una grande quantità di ricerca – e si dimostra in grado di alternare i registri e spaziare dall'alto al basso, dal filosofico al colloquiale, sempre con grande cognizione di causa. Dietro il racconto di una vita quotidiana narrata attraverso le passioni, le paure e le speranze di un paio almeno di generazioni dimenticate, si finisce per scorgere la trama di qualcosa di più profondo, l'idea che la nostra epoca non si sia mai davvero distaccata – perché in fondo questo distacco è impossibile – da aspetti arcaici e tribali dell'umanità che tendiamo a pensare di avere superato ormai una volta per tutte.

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Odio è un romanzo visionario ma allo stesso tempo attuale, che racconta la società in cui viviamo, il passato che l'ha determinata e il futuro che l'aspetta e conferma la natura di unicum difficilmente inquadrabile di Rielli.

Odio si apre con una cena, una situazione archetipica in narrazione, teatro per eccellenza di tensioni tenute segrete. Marco De Sanctis, il quasi quarantenne protagonista del tuo libro, di scheletri nell'armadio ne conosce parecchi. Come fa a sapere così tanti segreti? E perché navigando, persino cercando su Google delle risposte, abbiamo di rado la sensazione che stiamo consegnando i nostri segreti a qualcuno?

Immaginati una situazione dove un uomo, un amico in questo caso, possieda tutte le tracce che lasci online: i like che hai messo, i siti che hai visitato, gli acquisti che hai fatto, i posti dove sei stato, i messaggi che hai mandato: praticamente sa di te più di quello che sai tu stesso. La situazione è ancora più disturbante proprio perché, come dici, la vediamo per la prima volta in quel gioco di segreti e di svelamenti che è una cena fra amici. Marco non è un hacker, ma un imprenditore del digitale che ha fondato una società che raccoglie big data per fare predizioni affidabili sul futuro, all'inizio piccole cose, predizioni commerciali di corto respiro, poi però le cose si fanno sempre più complicate, fino a quando da questo scandagliare profondo nell'animo umano reso possibile dalla tecnologia emergono delle forze che pensavamo superate per sempre.

Nella scena a cui fai riferimento ci sono le due polarità fra cui è sospeso tutto il libro: il racconto della quotidianità, dell'amore, delle amicizie, del lavoro e degli svaghi nel nostro tempo – quale scena più descrittiva del nostro stile di vita che una cena fra amici? – e il modo in cui la tecnologia arriva silenziosamente a definirci, senza neppure che ce ne accorgiamo o perdiamo del tempo a rifletterci sopra.

Questi aspetti materiali, concreti, pragmatici, della realtà sono talvolta sottovalutati nella dimensione romanzesca ma per quanto mi riguarda rappresentano un oggetto letterario d'elezione: non possiamo capire la nostra condizione senza indagare i cambiamenti che la scienza ha portato alla vita umana negli ultimi secoli e in particolare negli ultimi anni: sono le forze che forgiano le nostre gabbie così come le nostre possibilità di liberazione.

In un certo senso Odio è un nuovo tipo di romanzo di formazione.

Sicuramente c'è il confronto fra un giovane uomo e il suo tempo tipico del romanzo di formazione, così come la sua riflessione su come trovare un posto all'interno della società. Odio non è un romanzo di fuga, non predica il rifiuto in blocco nella realtà: è la storia di un uomo che prende sul serio il suo tempo. Cerca aristotelicamente la felicità fra gli uomini, non lontano da essi, ma cosa succede quando a definire la natura della società è più la tecnologia che non i suoi simili, gli esseri umani? Questo è l'elemento innovativo, non si tratta più soltanto un confronto fra il protagonista e la sua comunità ma anche fra un essere umano e gli algoritmi.

La narrazione tocca molti temi centrali del nostro tempo: il capitalismo imprenditoriale, il ruolo dei social media, la necessità incessante di trasformazione personale, il meccanismo del capro espiatorio e la sua funzione costitutiva nella società. In che modo il protagonista attraversa tutto questo?

Marco De Sanctis arriva a Roma dalla provincia e si trova a lavorare quasi per caso nel mondo della politica, in una posizione che gli permette di osservare da vicino le ritualità, i compiacimenti, l'autoreferenzialità e la lentezza estenuante di quel mondo. Il giornalismo parlamentare non gli fa un effetto migliore. Da un certo punto di vista per lui questa è una delusione perché si rende conto che quello che credeva essere il centro pulsante del potere della Repubblica ormai è più che altro un teatrino con un potere sempre più declinante a favore delle piattaforme tecnologiche.

Scopre che sono le piattaforme che più di ogni altra cosa danno la forma alle idee, ai dibattiti, al nostro modo di guardare al mondo. Compiendo questa sorta di rivoluzione copernicana, il protagonista capisce che il potere non sta nel quadro quanto piuttosto nella cornice: è lì che ci sono la possibilità per le persone della sua generazione. Per questo, grazie anche all'aiuto della stessa persona che l'ha introdotto nel mondo della politica – un imprenditore del digitale – arriverà a darsi alla tecnologia e fondare Before fino poi a conoscere il successo. La storia però è tutt'altro che finita, perché ogni patto con il diavolo vuole il suo pagamento e la tecnologia della sua società finisce per aprire una sorta di vaso di Pandora che proprio lui, grazie alla sua formazione umanistica e al suo essere in fondo un pesce fuor d'acqua – per quanto di talento – in quell'ambiente, intuisce per primo, capendo quanto sia fondamentale il meccanismo del capro espiatorio nella nostra era digitale.

Da dove è nato il bisogno di scrivere questo libro?

Da parecchio tempo mi interrogavo sulla semplicità e la frequenza con cui nella nostra epoca digitale si mandano virtualmente al rogo delle persone prima ancora che sia iniziato il processo. M'interessava anche la crisi dell'apparato deputato a creare senso all'interno di una società: c'è ormai scarsa fiducia nel giornalismo e quasi nessuna nelle istituzioni e nella politica. D'altro canto il logos dell'occidente è sotto attacco da almeno due direzioni, la prima è la crisi ormai di lunga data, ma sempre più forte, della diffusione di religioni e ideologie unificanti, sostituite da una sorta di post-modernismo relativista, la seconda è la nascita e la diffusione dei social network che hanno creato un piano orizzontale del discorso.

In situazioni per certi versi simili, in passato l'essere umano ha risolto il problema attraverso il meccanismo del capro espiatorio: una vittima innocente che viene sacrificata per pacificare la tensione interna alla società e permettere così una nuova unità sociale. Questa è la lettura del meccanismo del capro espiatorio che faceva l'antropologo francese René Girard: il protagonista del romanzo l'assume come sua dopo averla vista riprodotta in forma simbolica nel mondo digitale e dopo aver scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook è stato Peter Thiel, allievo e seguace di Renè Girard, un imprenditore e pensatore “contrarian” che ha ripreso, declinandole in chiave aziendalista, molte delle tesi di Girard nel suo libro Zero to one e finanzia una fondazione di studi girardiani.

Se gli anni 80 sono stati gli anni – un po' fastidiosi, specie se si pensa ai debiti che hanno lasciato sulle spalle delle generazioni successive – dei vincenti, la nostra invece è l'epoca delle vittime, un altro segno chiaro dell'attualità del meccanismo del capro espiatorio perché il ciclo finisce sempre con la divinizzazione della vittima e la rimozione dalla memoria dell'uccisione collettiva.

Un altro tema trattato nel libro è quello dell'ambizione e del riscatto generazionale. In Italia si cresce più lentamente e si vive in un contesto dove il dibattito pubblico spesso non tiene in grossa considerazione i dati empirici e alle analisi razionali preferisce sovente la retorica. Nel libro si capisce chiaramente come gli italiani sotto i 40 anni abbiano spesso la sensazione di vivere in un contesto statico, sia economicamente che culturalmente, dove tutto è sempre molto fermo ed è difficile coltivare un'idea di futuro.

Marco ha una formazione filosofica eppure scopre sulla sua pelle che le persone che prendono sul serio lui e la sua intelligenza le trova soprattutto nel mondo della tecnologia. Li trova la capacità di riconoscimento e il rispetto per l'intelligenza, là cioè dove si cambia il mondo davvero, non a parole e quindi ogni teoria è sottoposta all'onere della prova. La breve frequentazione dei salotti romani lo ha lasciato con la sensazione che si trattasse di un mondo in declino, ossessionato da ritualità e idee ormai superate dal tempo, ripiegato nel suo conformismo che poi è anche un antidoto ad una certa, crescente, irrilevanza storica. Talvolta delle forze si affermano nel mondo solo perché sono in grado di dare maggiore credito di altre alle nuove intelligenze, una lezione questa in genere del tutto sottovalutata.

In un'ultima analisi Marco va laddove viene apprezzato e dove può applicare la sua intelligenza al mondo, ogni epoca offre solto un numero finito di possibilità e lui deve cogliere quelle della sua. Il tema diventa quindi: anche arrivando a ricoprire un ruolo di grande rilievo all'interno della società tecnologica è possibile una vita degna di questo nome o la nostra epoca ormai ignora in ogni caso i bisogni profondi degli esseri umani?

Alcuni eventi cardine del libro si giocano in luoghi-simbolo della società moderna: un autogrill, ma soprattutto un supermarket. Che cosa rappresentano per te questi luoghi?

Sono i luoghi che frequentiamo ogni giorno e in cui si esplicitano le forze definenti del nostro tempo. Il fatto che sotto casa si possano trovare a prezzi tutto sommato contenuti dei cibi provenienti dall'altra parte del mondo, talvolta con lavorazioni e metodi di conservazione molto complessi è un gigantesco sforzo collettivo e un miracolo della contemporaneità che non viene tenuto in giusta considerazione, probabilmente perché la nostra società è in grado di generare un'abbondanza materiale senza precedenti ma poi fatica a creare senso.

Nella mia scrittura comunque questi non sono solo paesaggi in cui fare muovere i personaggi, sono il frutto preciso del modo in cui è organizzata la nostra vita, dei nostri valori, del modo in cui viviamo assieme, delle nostre aspirazioni, per questo i luoghi prosaici nel romanzo sono tanto importanti, sono l'espressione concreta di come le idee complesse che reggono la modernità si uniscano a pulsioni eterne.

Ciò che accade in questi luoghi è anche molto esemplificativo di un modo di scrivere e di intendere la letteratura particolare, un rimescolare e un continuo passare dall'alto al basso, come un certo cinema portato alla ribalta anche dal post-modernismo. Da dove nasce questo slancio?

Se si vuole provare a raccontare la contemporaneità in letteratura è mia opinione che ci sia bisogno anche di usare – quando il momento lo richiede – dei registri colloquiali, mimetici. Nella cultura italiana c'è spesso un fastidio un po' fariseo nel vedere scritte le parole che ormai chiunque usa nella sua vita quotidiana, a me questa ipocrisia sembra una cosa molto poco seria, segno anche di scarsa solidità intellettuale. Un romanzo contemporaneo deve saper alternare lingua alta e bassa, dialetto, italiano letterario così come la lingua che si parla fra amici e quella che si parla a letto. Allo stesso modo qualsiasi oggetto del nostro mondo si può occasionalmente prestare anche a riflessioni potenzialmente molto profonde, è l'intelligenza che si diverte; penso al dialogo sul libero arbitrio dentro l'Autogrill Sarni che citavi prima. Che di temi alti si possa parlare solo ai convegni o in una biblioteca è un'idea che hanno sempre avuto soltanto le menti mediocri, è proprio nell'alternarsi di alto e basso che l'intelligenza prova a prendere le misure del mondo.

Parafrasando le parole di uno dei suoi amici storici, Marco De Sanctis, il protagonista del libro, ha un'anima di silicio. È vero che trova nella tecnologia una strada, ma in realtà rimane profondamente umanista. Odio stesso è una storia – ma sua. Che ruolo hanno le storie, oggi?

Rappresentano il nostro tentativo di trovare un senso, proprio come il meccanismo del capro espiatorio è il risultato di una richiesta di ordine, per quanto paradossale. L'occidente è una società aperta, governata da un pensiero sempre più debole e da una coda lunghissima di personali teorie per il raggiungimento della felicità, sempre più spesso in lotta le une con le altre. Le storie, le biografie, le epopee, rappresentano il nostro più antico tentativo di indagare la natura della condizione umana, di trovare un posto nel mondo per la nostra specie e per noi stessi.

Le religioni, le ideologie politiche erano forme collettive e tradizionali di storie, talvolta sedimentate nei secoli, se non nei millenni, oggi abbiamo storie di singoli uomini, che talvolta provano a dialogare con questo passato mitico – di cui però il senso ora sfugge – e con un futuro che non sente più il bisogno di nient'altro che del calcolo razionale. Eppure, finché esisteranno uomini con il nostro stesso dna esisteranno le storie.

Il controllo delle rete è uno degli spunti principali del libro. L'aspetto oppressivo del Grande Fratello è sicuramente un aspetto del tema, ma uno dei personaggi dà voce a un sentimento magari meno gridato, ma che appartiene a molti: è un sollievo che qualcuno ci controlli e prenda delle decisioni per noi.

Le scelte che dobbiamo compiere quotidianamente sono in numero enorme. Non c'è solo il problema dell'iperconnessione al lavoro, che moltiplica il numero di risposte da dare quotidianamente, c'è anche il lavoro della felicità, ovvero la serietà con cui ci si dedica al consumo, al tempo libero, al turismo: tutte attività che per gli sforzi organizzativi e cognitivi che richiedono assomigliano molto a un secondo lavoro. Se un tempo le persone avevano una vita più lenta, meno ossessionata dall'autorealizzazione e dallo “sfruttare a pieno il tempo libero” potevano anche contare su un set di risposte già dato, insomma le cose si facevano più o meno per tutti in un modo e non in un altro, un mandato che noi oggi troveremmo – con qualche ragione – del tutto inaccettabile.

L'autodeterminazione, specie quando si lega al consumo, può essere però molto faticosa, per questo il ruolo delle grandi narrazioni potrebbe venire preso da delle tecnologie che siano in grado di suggerirci cosa fare o cosa non fare.

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